di VITTORIO ROIDI
Non capisco perché Michele Mezza abbia chiamato la “mossa del cavallo” quella che l’Usigrai dovrebbe fare dopo lo sciopero dell’altro giorno, quando in Rai sono andati in onda solo due telegiornali, ma la spaccatura fra i giornalisti è stata chiara e dolorosa.
Scrivo questo articolo per due ragioni: la prima è che Professione reporter è un sito nato proprio per discutere di giornalismo e spero che vogliano farlo anzitutto i colleghi che con me l’hanno fondato (Fiengo, Ferrigolo, Gramaglia e il direttore Garibaldi). La seconda ragione è che mi piacciono gli scacchi, ma la sua idea di una modernizzazione attuata “scomponendo rendite di posizione e continuità organizzative” per arrivare a una “unificazione della fabbrica delle news” mi pare ingiustificata e azzardata. Che c’entrino o meno il cavallo e la scacchiera, comunque potrebbe rivelarsi un passo indietro. Il sindacato dei giornalisti non deve correre avventure se vuole continuare a svolgere il ruolo che gli compete all’interno della Rai, azienda che appare preda della maggioranza di governo più di quanto lo sia mai stata in passato.
chesi, zavoli e curzi
Sono stato dieci anni alla Rai, tutti al giornale radio. Neppure Vittorio Chesi, grande direttore del Gr unico, sicuramente democristiano, si sarebbe permesso di fermare Antonio Scurati il 25 aprile. Né lo avrebbero fatto, dopo la tripartizione, direttori come il socialista Zavoli o il comunista Curzi. Alcuni una tessera di partito in tasca l’avevano, ma erano prima di tutto giornalisti e sapevano che l’azienda non chiedeva loro di censurare e di imboccare i loro colleghi. Le redazioni non erano (e non sono oggi) gruppi di esponenti di partito, ma professionisti, più o meno bravi, che sapevano e sanno di avere ciascuno una responsabilità di fronte ai cittadini.
“invasione comunista”
Quando sono stato eletto presidente della Fnsi fu la stessa cosa: i 350 congressisti di Pugnochiuso avevano in tasca solo l’iscrizione all’Ordine. In Rai la politica ha sempre cercato di infilarsi, ma grazie alla crescita della professionalità di molti l’informazione è stata sufficientemente pluralista, come la riforma aveva chiesto. Neppure oggi né le redazioni né il sindacato Rai sono, come tenta di far credere la destra più becera, invasi dai comunisti. E’ falso. Neanche la Rete tre, il Tg3 e la Tgr. Lì lo sciopero è riuscito meglio? Perché evidentemente lì più persone hanno capito la gravità della situazione ed hanno deciso che era necessario protestare, davanti all’azienda e ai cittadini.
Poi la confusione, i crumiraggi, le scorrettezze, anche di qualche direttore. L’edizione straordinaria per parlare dei cinque operai morti in Sicilia era doverosa, ma perché non è stata concordata con il sindacato, come è previsto dal contratto? E perché i giornali che sono andati in onda non sono stati preceduti dalla notizia dello sciopero e della “edizione in forma ridotta” come si era sempre fatto in passato?
possibile congresso
In questi anni l’Usigrai ha saputo far rispettare il contratto di lavoro e le regole del giornalismo non perché era pieno di comunisti ma perché era compatto e le opinioni minoritarie venivano comprese. Poi un errore è stato commesso. Lo scontro interno, incendiato da dirigenti e direttori che hanno interpretato il proprio ruolo come se fossero al servizio del governo, è scoppiato quando il contrasto con un gruppo di minoranza è diventato più duro. Si poteva fare un congresso? Forse. La mediazione si è interrotta e molti colleghi non hanno capito che abbandonando il sindacato unico avrebbero indebolito la categoria. Sono usciti, applauditi da direttori, come mai era successo in un’azienda pubblica, che tra l’altro deve fronteggiare una concorrenza un tempo inesistente. E 48 ore dopo l’amministratore delegato attizza ancora il fuoco, mandando una lettera di richiamo alla giornalista che ha segnalato la censura e che dovrebbe ringraziare.
gestione del servizio
Ora, visto che anche Michele Mezza pensa che l’Usigrai debba fare una rivoluzione, quale? Attenti a tornare indietro. L’importante è che faccia il suo mestiere, che è quello di difendere il giornalismo, la pluralità delle opinioni, l’indipendenza da tutti i governi. La rivoluzione, o meglio la modernizzazione, potrà avvenire, solo quando il Parlamento, come in altri paesi, affiderà ad un’istituzione indipendente la gestione del Servizio di informazione. La Rai non può finire nelle mani di una maggioranza, così come si vorrebbe far comprare da un amico della premier l’Agi, la seconda agenzia di stampa italiana. Perché allora, la Rai, diventerebbe un servizio privato, non Pubblico.
Un’ultima osservazione. L’idea che il “digitale”, con la Rete, le connessioni e le macchine più o meo intelligenti, debba provocare una parcellizzazione del giornalismo, far scomparire il lavoro collettivo, cioè le redazioni e anche il sindacato, è un’idea che può piacere ai sovranisti, a chi vuole imporre la propria forza senza affrontare le discussioni, i confronti e le votazioni che sono alla base della democrazia. Ecco un altro scenario sul quale i giornalisti dovranno riflettere e, se sarà necessario, combattere.