di ANDREA GARIBALDI

Prendo il telefonino, digito Marco Cianca su WhatsApp e scorro all’indietro. Marco mi mandava, negli ultimi anni, i pezzi che ogni settimana faceva per “Diario del lavoro” di Massimo Mascini. Vedo che il 22 aprile 2021, sotto “Debiti da cancellare e tasse da mettere”, ho scritto “Molto bello”. Vedo che il 3 maggio 2022, sotto “Il sarto e l’angelo”, riflessione in cui citava Benjamin e Brecht, gli ho scritto “Bello come sempre, Marco (hai scritto Ugo Magri invece di Lucio)”. E lui: “Hai ragione grazie! Spero che Ugo, nel caso, non si sia dispiaciuto. Lucio invece era molto presuntuoso, si sarebbe adontato”. Il 6 settembre, sotto “Lacrime da coccodrillo. Quando le fake news nascono da mancate verifiche”, ho scritto: “Letto, molto bello”. L’11 aprile 2023 sotto “Voglia di giornalismo”, ho scritto: “Sei un maestro”, e lui “Grazie caro Andrea, mi lusinghi”. Si trattava di una vera lezione sul giornalismo, su ciò che ne resta, su perché non debba morire, con dentro Platone e il filosofo sud coreano Byung -Chul Han. Sotto “Il gramscismo di destra “, ho scritto: “Grande Marco”, e lui: “Speriamo che le nostre parole servano ancora a qualcosa”. E ancora, sotto “Il cavaliere fenicio”, un ricordo di Emilio Lussu, ho scritto: “Marco, bellissimo, non vedo uomini così nella politica di oggi. Solo piccoli opportunisti senza visione. Eppure si potrebbe”. E lui, soltanto: “Hai ragione, purtroppo”.

“Quanto era bello”

Quando morì Fabrizio Zampa gli mandai un ricordo uscito su Professione Reporter e lui: “Purtroppo ho conosciuto Fabrizio Zampa solo da lontano. Era un mito per noi più giovani. Quanti ricordi, comunque. E quanto era bello quel Messaggero”.

In quel Messaggero quando sono arrivato io a collaborare, giovane cronista un po’ smarrito e insicuro, era il 1976. Marco era già lì, giovanissimo anche lui, ma circondato da un’aura di fenomeno. Il capo cronista era Silvano Rizza, gigante del giornalismo, che incuteva terrore, ma soltanto perché sapeva come si fa la cronaca in modo assoluto e non tollerava distrazioni. Marco era la stella nascente e già brillante, in quello stanzone enorme, buio e fumoso, -macchine da scrivere e telefoni grigi con i numeri a corona- con dentro una ventina fra i cronisti più svelti dell’epoca.

centinaia di chiamate

Marco stava sempre al telefono, si occupava di cronaca bianca, faceva centinaia di chiamate, per sapere come funzionavano gli asili nido a Roma, o quanti vigili urbani erano per le strade, se le scuole garantivano la sicurezza agli studenti, quanto costavano i caffè nei bar della città. Aveva una matassa di capelli neri, vestiva con grandi e pesanti maglioni, era totalmente preda della professione e io pensavo a lui come a un esempio, una luce lontana, un giornalista come non sarei mai potuto diventare. Appariva anche chiaro che Rizza, lo spietato, dannato, fantastico Rizza, lo considerava il migliore di tutti e lo guardava quasi con tenerezza, se ne fosse mai stato capace.

Più avanti, ci fu una Vespa fra di noi, gliela prestai una sera che doveva fare non so cosa di gran carriera e non sapeva come, e la mia offerta fu come quella di Martino con il mendicante e la Vespa come il mantello. La mia Vespa rossa, di cui abbiamo continuato a parlare per quarant’anni. Poi, naturalmente, quando Il Corriere della Sera decise di aprire la sua redazione di Cronaca di Roma venne a pescare al Messaggero i cronisti di punta. Marco fu tra le prime scelte.

 logoramento e fatica

Al Corriere inizia la sua seconda vita professionale. Applicò anche lì il suo metodo intensivo e micidiale, nessuno riusciva a stargli dietro, ma per lui era anche un logoramento, c’era dietro una fatica. Il Corriere lo portò a Milano, qui si occupò di sindacato, strinse rapporti e amicizie di una vita intera con i grandi sindacalisti Foa, Carniti, Trentin. Suo padre, Claudio Cianca, era stato un grande sindacalista e un uomo integerrimo. Partigiano, comunista, antifascista.

Marco è poi tornato a Roma a dirigere la Cronaca di Roma del Corriere e successivamente il prestigioso Ufficio Romano. Sempre con quel po’ di sofferenza, perché doveva fare tutto per bene, fino alla fine, come quelle centinaia di telefonate per gli asili nido, perché non sopportava l’imprecisione, la superficialità e alla fine ci stava male lui, si rovinava l’umore lui. E non gli piaceva cosa vedeva intorno. In una intervista, ottobre 2016, al Sussidiario.net disse: “Quando osservo la classe politica, il suo discredito, il suo ripiegarsi su se stessa, mi viene da dire: ma perché oggi non c’è un Alcide De Gasperi che abbia una visione d’insieme? E’ come se la resa dei conti non fosse mai finita, e quindi come se non fosse mai stata inglobata nel nostro Dna la bellezza della democrazia”.

lezioni preziose

Venne la pensione, un luogo dove forse non sarebbe mai voluto andare. Qualche preziosa lezione ai ragazzi che dovevano affrontare gli esami da giornalista, senza retorica, nè mitologia. E i pezzi sul “Diario del lavoro”.

Una sola cosa finale: quei pezzi sul “Diario del lavoro” sono bellissimi, davvero. Sono uno sguardo sulla triste realtà dell’Italia e del mondo, pieno di letture, di citazioni e importanti riflessioni. La rubrica si chiamava “Il guardiano del faro”, e Marco era questo, un solitario, malinconico, guardiano del faro, con gli occhi pieni di dolori.

(nella foto, Marco Cianca, con il suo grande amico e collega Andrea Balzanetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell’Ordine dei giornalisti del Lazio)

4 Commenti

  1. Tempi gloriosi, giornalisti appassionati. Ricordo anch’io Marco Cianca quand’era un giovane cronista, già arruolato al Corriere. Bell’articolo, descrive molto bene quel periodo. Complenti Andrea Garibaldi!

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