di ALBERTO FERRIGOLO

La pubblicità? È l’anima del commercio, dice il motto. Ma lo è anche “del giornalismo”, secondo la celebre intervista a Italia Oggi del 1° giugno 1988 di Eduardo Giliberti, allora Direttore generale della Rcs pubblicità, scomparso nel 2008. Forse voleva dire che la réclame, sotto forma d’inserzioni sui giornali o spot tv, è “motore” e “sostegno” delle imprese industriali che producono la merce informazione e, dunque, pane e cibo per gli addetti. Ma ha detto proprio “anima”, concetto ben diverso. Nel senso che redditività d’impresa, capacità occupazionale, pubblicità si presentano come elementi legati da un rapporto direttamente proporzionale, al punto che il loro equilibrio, nella visione di Giliberti, si sarebbe dovuto mantenere sulla base d’una “commistione profonda tra pubblicità e informazione”. 

fattori dispiaciuto

La reazione del Comitato di redazione della Rizzoli Corriere della Sera Periodici dell’epoca non tardò a farsi sentire e in una nota annuciò d’aver incontrato l’Amministratore delegato della Rcs Editori, Giorgio Fattori, per segnalargli “le dichiarazioni lesive dell’autonomia e della professionalità dei giornalisti”. Fattori concordò e disse d’esser stato “malamente colpito” dall’intervista, si dimostrò “dispiaciuto” e aggiunse che le dichiarazioni contenute in quella “sballatissima intervista” avevano portato solo “danni”. Tuttavia, sottolineava il Cdr, “Giliberti non ha fatto altro che dire in modo esplicito ciò che avviene dietro le quinte”, mentre il giornalista dovrebbe lavorare “per dare informazione e non per fare da supporto alla pubblicità”. Tant’è.

Trentasei anni più tardi, lo sciopero di due giorni della Repubblica dopo la scoperta delle intrusioni della proprietà negli articoli di preparazione all’evento “Italian Tech Week” e l’esistenza d’un tariffario per gli articoli, ha svelato realtà e prassi correnti: le aziende partecipanti versavano a la Repubblica compensi per la pubblicazione di articoli perché non apparissero come pubblicitari.

persuasori occulti

La questione del rapporto pubblicità-informazione è annosa, assai complicata, dibattuta e va rubricata sotto il più generale tema dei “persuasori occulti”, titolo del saggio del 1958 di Vance Packard (Einaudi). Riguarda i messaggi subliminali, un Quinto Potere che s’è impadronito della vita contemporanea.

In un articolo sulla sua rivista, a fine 1980, lo storico del giornalismo ed ex presidente della Federstampa, Paolo Murialdi, mancato nel 2006, raccontava l’aneddoto sul “bue censurato”, fatto accaduto a Parigi in quell’estate. Il signor Fauchon, direttore della rivista 50 millions des consommateurs, collegata all’Institut national de la consommation, “approvava l’articolo che aveva commissionato sullo spericolato impiego degli ormoni nell’allevamento della carne da macello”. Dopo i vitelli era toccato ai buoi. Il titolo dell’articolo recitava: “Ne suives plus le boeuf” (Smetti di seguire il bue), ma accadde che a metà settembre, una volta stampate le 350 mila copertine e la tiratura a quota 177 mila, Fauchon abbia fermato le rotative e fatto buttare al macero tutto quanto. Poi modificò titolo e testo per ristampare il giornale: “Viande aux hormones: des nouvelles menaces” (Carne con ormoni: nuove minacce). Il Ministero dell’Agricoltura s’era fatto sentire e il direttore era sottostato alla censura. I redattori diedero al caso massima diffusione, a tutela dei consumatori.

silenzio e baccano

E mentre in Francia scoppiava il caso del “bue censurato”, in Italia entrava in vigore – con ben 18 anni di ritardo – il regolamento d’esecuzione della legge del 1962 sulla disciplina igienico-sanitaria per la produzione, la vendita di sostanze alimentari e bevande che in Italia le lobbies politico-burocratiche del settore erano riuscite a ritardare. La chiosa è che la cattiva informazione, grande nemica dei consumatori, ha due facce: “Il silenzio sui fatti gravi, il baccano sulle montature”.

Se ci s’attiene al vocabolario di mezzo secolo fa, la pubblicità è definita come “il complesso dei sistemi e dei mezzi con cui si fa conoscere al pubblico un prodotto commerciale”, anche se il problema della delimitazione di confini e intersecazioni resta di difficile, se non quasi impossibile, soluzione, con regole per lo più di carattere universale. Eppure c’è stata anche una stagione d’una certa severità e rigore da parte d’importanti giornali che nel notiziario o negli articoli scrivevano di “nota bevanda americana”, anziché citarne il marchio, oppure nel parlare d’auto coinvolte in incidenti indicavano solo la cilindrata, non la marca. Altri tempi.

bilanci positivi

La Stampa e la Repubblica parlano con disinvoltura della realtà Stellantis quando c’è da anticipare bilanci positivi, quotazioni o ipotesi di fusione o celebrare i 125 della Fiat. Articoli promozionali. Anche se, va detto, Repubblica quando parla di Stellantis indica sempre che trattasi dello stesso Gruppo proprietario del giornale. Ma è vero che, quando si parla di condizionamenti, il catalogo del giornalista sulla pubblicità in genere comincia proprio da situazioni legate alla proprietà dei media. Così il “redazionale” è sempre piuttosto usato proprio perché piace alla maggior parte degli inserzionisti. E il caso dell’ultima protesta dei giornalisti di Repubblica riguarda proprio la preoccupante tendenza a cedere spazio direttamente ai pubblicitari. Non a caso si assiste allo sviluppo d’inserti e speciali allegati, che piacciono a chi li commissiona per la loro efficacia.

Murialdi avvertiva che “la scelta che, invece, non si deve fare o si deve abbandonare perché fonte di equivoci per il lettore e d’imbarazzi per il giornale è quella della compilazione mista dei testi”, cioè parte informativi scritti da uno o più redattori e parte a cui provvede la concessionaria o l’utente stesso, come accaduto con “Italian Tech Week”.

crisi delle vendite

Fino a metà anni ‘90, quando i giornali italiani vendevano complessivamente 6.800.000 copie al giorno, i media si finanziavano attraverso le vendite e la pubblicità in un rapporto 60-40%. Ma, con l’incalzare della crisi delle vendite, la pubblicità s’è resa indispensabile tanto da porre le sue condizioni, facendosi più aggressiva. Il fatto è che nei primi sei mesi del 2024 le vendite dei quotidiani “si sono assentate a 942 mila copie medie al giorno”, secondo la rielaborazione dei dati raccolti da Ads-Accertamenti diffusione stampa, riportata sul sito del Sindacato Nazionale Autonomo Giornalai, Snag (per AgCom erano 1.570.000 nel 2022), resa nota lo scorso 4 ottobre. Venuti meno gli introiti da edicole e abbonamenti, la pubblicità è il solo canale a portar soldi e a consentire a quotidiani e periodici di resistere.

cancellazione di un nome

Il punto è che informazione e pubblicità dovrebbero essere distinte e distinguersi, mentre la seconda si insinua con prepotenza nella prima, tra beauty, moda, auto, orologi, pandori di beneficienza (il caso Ferragni), eventi. L’avvento di Internet ha poi finito con l’aprire i battenti alla “brandizzazione” dei contenuti, quindi degli articoli direttamente. Un tanto al click, guadagni mirati. Nota ancora lo storico del giornalismo, nel suo “Come si legge un giornale” (Laterza 1975), che la pubblicità “viene spesso usata come arma di pressione e, a volte, di rappresaglia contro quotidiani e settimanali”. Vari sono i metodi: “Si va da quelli più drastici, la rottura o il mancato rinnovo di un contratto, a quelli blandi, che cominciano con la richiesta di un favore, come la cancellazione di un nome o di un marchio da una notizia sgradita o, all’opposto, la citazione di quel nome o di quel marchio”. La Rai, per esempio, sulla base delle pressioni ricevute dagli sponsor ha cancellato a suo tempo una trasmissione come “Di tasca nostra”, ideata e condotta da Michele Lubrano, tagliata su misura per il consumatore. Testate gourmet di prestigio, tra ’80 e ’90 si son viste sottrarre la pubblicità di note marche minerali solo per aver pubblicato servizi d’analisi sulla qualità delle acque in bottiglia.

diritti del lettore

Sull’onda della grande offerta pubblicitaria, negli anni d’oro degli spot della tv commerciale e della crescita dei consumi in genere, a cavallo tra ’80 e ’90 sono nati –proprio come supporto alla richiesta e sfogo all’impossibilità dei quotidiani di riferimento di smaltire tutta le réclame l’offerta del mercato, specie quelle a colori– gli allegati ai quotidiani (il Venerdì per Repubblica, Sette per il Corriere e via dicendo tra Moda, Beauty, Motori, Food&Wine), mentre i Duemila sono stati l’era dei free press (Metro, City, Leggo) alla cui base gestionale c’erano proprio gli introiti pubblicitari, essendo testate gratuite. Ma più precisamente, sulla commistione informazione-pubblicità, l’ex direttore del Corriere della Sera, Piero Ottone, nella famosa “Intervista sul giornalismo italiano” (Laterza 1978) ricorda il caso del mensile Amica che “nacque e adottò presto una politica per la pubblicità assolutamente deplorevole”, perché “incominciò a vendere spazi redazionali agli utenti pubblicitari, e questa è una cosa giornalisticamente inammissibile, questa pratica è un inganno”, in quanto “il lettore ha il diritto, quando legge il testo d’un giornalista, di pensare che questi scrive in buona fede ciò che ritiene giusto, e non che scrive per fare un favore a qualcuno in cambio di pubblicità”.  

vigilanza dell’ordine

Come può il giornalista e il giornalismo difendersi da questa invadenza, specie in questo periodo in cui la crisi avanza, la copia arranca e sul ponte dell’informazione e dell’editoria sventola bandiera bianca? È sufficiente quanto contenuto nella “Carta dei diritti e dei doveri del giornalista”, all’articolo 10 sotto il titolo “Doveri in tema di pubblicità e sondaggi”? L’Ordine, ad esempio, che fa? Vigila sufficientemente? Interviene o si gira dall’altra parte facendo finta di nulla? O dovrebbe invece, attraverso i propri Consigli di disciplina, intervenire di più, richiamando o sanzionando quanti trasgrediscono le norme? Il rischio è che sia il giornalismo ad aver perso la sua anima. E con lui anche tutti i suoi addetti in un discredito generale. Non facciamo che gli appelli del Capo dello Stato sulla libera informazione, universalmente intesa, cadano nel vuoto.

(nella foto, Piero Ottone con il poeta Eugenio Montale, al Corriere della Sera, anni ’70)

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