di GIAMPIERO GRAMAGLIA

Mi piacerebbe potere scrivere che Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, o meglio che Kamala Harris le ha perse, per colpa di Jeff Bezos e di Patrick Soon-Shiong, gli editori imprenditori del Washington Post e del Los Angeles Times che hanno imposto ai loro giornali di non fare l’endorsement a favore della candidata democratica.

Mi piacerebbe, ma purtroppo non è vero. Anzi, è vero piuttosto il contrario: Bezos e Soon-Shiong, che sono editori non per vocazione ma per affari, hanno preso la loro decisione perché pensavano che Trump avrebbe vinto le elezioni e hanno agito da imprenditori per non compromettere i rapporti delle loro aziende con l’Amministrazione prossima ventura.

soldi a palate

Allo stesso tempo, mi piacerebbe potere scrivere che Trump ha vinto perché Elon Musk, il genio anarcoide e multiforme di Tesla e di Starlink, gli ha messo a disposizione, oltre che soldi a palate, anche X, che, da quando è nelle sue mani, ha accelerato l’involuzione da luogo di scambio d’informazioni e di opinioni in uno strumento di manipolazione.

ìMi piacerebbe, ma anche questo purtroppo non è vero. Musk ha sicuramente contributo al successo di Trump (come, in tempi brevi, potrebbe contribuire alla sua rovina, perché la loro imprevedibilità e il loro egocentrismo li candidano a un’intesa di breve durata). Ma anche in questo caso la scelta è stata frutto in primo luogo di opportunismo imprenditoriale: Musk ha visto la possibilità di incidere sulla prossima Amministrazione e, addirittura, di avervi un ruolo di primo piano, che, ovviamente, interpreterà nell’interesse delle sue imprese. Con l’imprenditore biotech Vivek Ramaswami, Musk sarà il responsabile di un inedito dipartimento per rendere più efficiente l’Amministrazione, all’insegna di meno regole e meno burocrazia – lui e Trump sono per zero regole e zero burocrazia, versione libertaria del “faccio quello che mi pare”.

73 milioni

Resta da sfatare un ultimo mito, che le elezioni siano state truccate dall’Intelligenza artificiale, l’estremo rifugio di quanti non accettano che le abbiano decise 73 milioni di elettori che, nonostante otto anni di menzogne e assurdità, reati e rozzezze, hanno ugualmente votato per il magnate. NewsGuard, che non è certo tacciabile di simpatie trumpiane, ha fatto uno studio in merito, concludendo che Starlink “non ha truccato le elezioni a favore di Trump”.

Scrive Sam Howard: “Alcuni utenti dei social network di sinistra sostengono, senza apportare prove, che Starlink, la rete satellitare di proprietà di Elon Musk, abbia truccato le elezioni presidenziali statunitensi a favore di Donald Trump. Musk è stato ricompensato per il suo sostegno al presidente eletto in campagna elettorale con un ruolo nella nuova amministrazione repubblicana”.

post-verità

”Le affermazioni – prosegue Howard – hanno registrato un’impennata nei giorni successivi al voto del 5 novembre e hanno continuato a circolare nella settimana successiva. Secondo uno strumento di monitoraggio dei social network usato da NewsGuard, il trend ha raggiunto il suo picco il 10, quando Starlink è stato menzionato 281.644 volte su X, la piattaforma di social network di proprietà di Musk, a fronte di una media giornaliera di 40.100 menzioni al giorno dal 5 al 9 novembre”. Ma, puntualizza Howard, non c’è motivo di credere che le affermazioni siano fondate: sono nella sfera della “post verità”, una somma di falsità fa una verità.

Un motivo d’ottimismo, a mio avviso, è che le scelte degli editori imprenditori sono risultate negative per i loro media: nel caso di Washington Post e di Los Angeles Times, oltre a rivolte e dimissioni di giornalisti, vi sono state defezioni di abbonati massicce; e nel caso di X l’emorragia degli account ha visto distacchi eccellenti.

scelta irrilevante

Invece, l’impatto elettorale dei mancati endorsement è stato modesto, perché i media tradizionali, come i social, parlano solo a chi già la pensa in un certo modo; e i lettori di WP e LATimes, come quelli del New York Times, che invece l’endorsement l’ha fatto, erano già orientati pro-Harris, indipendentemente dalla posizione del loro giornale; anzi, leggono, o leggevano, quel giornale anche perché pro–Harris.

Del resto, nelle cronache e nelle analisi, le due testate non hanno mai smesso di essere schierate contro il candidato repubblicano e con la candidata democratica, nonostante l’agnosticismo dell’editore. Magari -è solo un’ipotesi- Katharine Graham, l’editrice del Washington Post al tempo dei Pentagon Papers e del Watergate, avrebbe fatto una scelta diversa, ma, dal punto di vista dell’esito delle elezioni, sarebbe stata ugualmente irrilevante.

“decisione di principio”

Una irrilevanza già emersa senz’ombra di dubbio nel 2016: la stragrande maggioranza dei media Usa tradizionali e delle reti tv di rilievo nazionale, con l’eccezione della Fox, diedero l’endorsement a Hillary Clinton; e vinse Trump.

 A una settimana dal voto, Bezos, fondatore di Amazon e, dal 2013, editore del Washington Post, avendone acquisito la proprietà dalla famiglia Graham, ha spiegato, in un suo articolo, nella pagina dei commenti, perché aveva deciso che il suo giornale non desse quest’anno l’endorsement all’uno o all’altro dei candidati alla Casa Bianca. Per Bezos, gli americani non hanno fiducia nei media e “gli endorsment creano una percezione di pregiudizio e di mancanza d’indipendenza. Porvi termine è una decisione di principio ed è la decisione giusta”.

sino-sudafricano

Analoga decisione era stata presa, la settimana precedente, dall’editore del Los Angeles Times, imprenditore biotech di origini sino-sudafricane, che non l’aveva però motivata pubblicamente.

I mancati endorsement hanno creato molto fermento nella stampa americana. Entrambi i prestigiosi quotidiani hanno rotto una tradizione radicata (e rispettata dal loro “fratello maggiore”, il New York Times). Ed entrambi hanno “pagato” la decisione dei loro editori con una perdita cospicua e quasi immediata di abbonamenti (200 mila in un sol giorno le defezioni accusate dal WP).

Era la prima volta, in 36 anni, che il quotidiano della capitale di tradizione liberal non appoggiava un candidato: l’ultima –e unica– volta era stata nel 1988, quando la corsa era tra George Bush e Georges Dukakis. Secondo fonti presenti alla riunione di redazione di venerdì 31 ottobre, il capo degli editoriali David Shipley ha informato che il direttore Will Lewis stava per pubblicare una nota per annunciare “niente endorsement” con l’obiettivo di creare uno “spazio indipendente”. Durante la sua presidenza, e ancora in campagna elettorale, Trump era stato molto critico con Bezos e il WP.

sotto shock

I giornalisti non l’hanno presa bene e si sono detti “sotto shock”. La decisione di non pubblicare l’endorsement a Harris, pronto da giorni, veniva da Bezos in persona. Gli editorialisti avevano già redatto un articolo di sostegno alla candidata democratica. Di conseguenza, una delle firme di punta del giornale, Robert Kagan, si è dimesso. Kagan, autore di “Rebellion: How Antiliberalism is Tearing America Apart-Again”, è stata una delle voci più critiche verso Trump: nel 2023 scrisse il commento “La dittatura di Trump: come fermarla”,  accusando il magnate d’essere anti-Ucraina e suggerendo che l’ex presidente potrebbe “distruggere” la democrazia se rieletto.

Al Los Angeles Times, oltre alla responsabile della pagina degli editoriali Mariel Garza, altre due grandi firme hanno lasciato per la decisione del proprietario di bloccare l’endorsement di Harris.
Robert Greene, un premio Pulitzer, e la collega Karin Klein hanno annunciato le loro dimissioni. Greene ha scritto: “Capisco che la decisione è del proprietario… Ma la vicenda è particolarmente dolorosa perché uno dei candidati, Trump, è ostile ai principi di base del giornalismo: il rispetto per la verità e per la democrazia”.

città progressista

Lasciando il Los Angeles Times, Garza, dal canto suo, ha detto alla Columbia Journalism Review: “Voglio chiarire che non accetto che si resti in silenzio. In tempi pericolosi, le persone oneste devono farsi sentire. Questo è il mio modo di farlo”. Il LATimes, principale giornale di una città molto progressista, ha appoggiato il candidato democratico in ogni elezione presidenziale dal 2008. Anche in vista del 5 novembre di quest’anno, ha pubblicato una lista di endorsement per le elezioni del procuratore distrettuale e di deputati statali, comunali e della contea.

Il giornale non attraversa il suo miglior momento. Questo dissidio tra redazione ed editore arriva dopo le dimissioni del direttore a gennaio e l’annuncio di nuovi licenziamenti.

un futuro migliore

In parallelo, il New York Post ufficializzava il suo endorsement a Trump, sostenendo che la sua era una “scelta chiara per un futuro migliore”. L’endorsement del quotidiano conservatore di proprietà di Rupert Murdoch arrivava nonostante le critiche rivolte al magnate per la gestione della pandemia e per l’attacco al Campidoglio di Washington del 6 gennaio 2021.
Se i proprietari dei due quotidiani hanno pagato, almeno sul fronte abbonamenti, la loro scelta, Musk, invece, a fronte di defezioni su X, vede salire le quotazioni delle sue aziende, quali che siano, auto elettriche, spazio, intelligenza artificiale. La ragione è che lui ha realmente acquisito potere, con l’elezione di Trump, mentre Bezos e Soon-Shiong non sono affatto certi di vedere “compensato” dal presidente eletto il tradimento ai loro lettori.

le bordate del guardian

Musk, invece, può incassare senza vacillare le bordate di The Guardian, che chiude l’account su X –vi anticipo che lo farò anch’io, pur conscio dell’assoluta irrilevanza della mia “testimonianza”– e motiva pubblicamente la decisione: “Pensiamo che attualmente gli svantaggi di essere su X prevalgano sui vantaggi e che le risorse ad esso dedicate possano essere meglio usate promuovendo altrove i nostri contenuti”.

Il fatto è che Musk è attualmente percepito, come scrive Stefano Feltri sui suoi Appunti, come “l’uomo che ha comprato a Trump la Casa Bianca” e “il vero presidente degli Stati Uniti” (cosa che non potrà mai accadere, perché lui non è nato “cittadino statunitense”). E, forse, un po’ lo pensa anche lui, a giudicare dalle disinvolte interferenze nelle politiche interne di altri Paesi, come i post contro i magistrati italiani a sostegno del governo guidato dalla sua “amica” Giorgia Meloni.

spirto di montesqiueu

L’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel silenzio assenso della premier e dei suoi accoliti, in fondo contenti di tanto sostegno, delinea in modo plastico la contrapposizione tra lo spirito di Montesquieu, con il principio della separazione dei poteri, e la visione autocratica dell’uomo forte, che Trump e Musk coltivano entrambi. E se emergerà che Musk controlla Trump, e non viceversa, saremo di fronte a un potere senza avalli, se non al più quello del “popolo del web”. Sufficiente? Certo pericoloso, per la democrazia.

Se proprio vogliamo trovare uno spunto positivo nel panorama mediatico Usa di questi tempi, eccolo: The Onion, una pubblicazione satirica che potremmo accostare all’italica Lercio, intende acquistare Infowars, il sito di disinformazione del complottista Alex Jones, e farne una caricatura del cospirazionismo. The Onion ha l’appoggio delle famiglie delle vittime delle stragi nelle scuole che Jones sostiene non siano mai avvenute: per questo, è stato condannato a indennizzi milionari e deve ora vendere il suo sito.

(nella foto, Musk e Trump in campagna elettorale)

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