di ERIC SALERNO
Se esiste una graduatoria tra le vittime del conflitto armato che da oltre un anno sconvolge il Medio Oriente o quello che da quattro anni sta tormentando un pezzo importante del nostro continente europeo, credo che sia ormai chiaro che in cima, se non al primo posto, va messo il giornalismo, con la sua tradizionale ricerca della verità e capacità di offrire al pubblico gli strumenti, l’informazione necessaria per comprendere i fatti e giudicarli.
La libertà di stampa è garantita dalle nostre costituzioni, ma non sempre è rispettata. In tempi di guerra il racconto è un’arma, le verità sono multiple. In tempi di pace è uno strumento politico gestito quasi sempre da chi, vincendo le elezioni, ritiene di essere detentore della verità. Oggi, per vari motivi e su numerosi fronti, la stampa – giornali, radio, tv – è sotto attacco, gravemente ferita dopo anni di violenze più o meno percepite dal pubblico. Qualcuno direbbe agonizzante.
censura militare
Israele è in guerra da sempre. La censura militare una realtà che risale a prima della sua nascita, ai tempi del mandato britannico sulla Palestina. Israele, però, è una democrazia (non perfetta, certo, visto il posto riservato alla sua minoranza araba) e la stampa è sempre stata abbastanza libera di raccontare e criticare. Da un po’ di tempo la situazione è cambiata.
Haaretz, il noto giornale di opposizione, da sempre a sinistra, raccontava l’altro giorno: “A Netanyahu non sono mai piaciuti i nostri reportage e la nostra forte posizione contro la sua politica di occupazione e annessione nei territori occupati e la sua generale negazione dei diritti palestinesi. Nel 2012, ha definito ‘Haaretz e il New York Times i principali nemici di Israele’ (e in seguito lo ha negato)… A diverse settimane dall’inizio della guerra, lo scagnozzo di Netanyahu, Shlomo Karhi, il ministro delle Comunicazioni, ha redatto una risoluzione del Gabinetto per boicottare Haaretz e fermare la pubblicità e gli abbonamenti al giornale pagati dal governo”.
libere elezioni
Il suo sforzo di punire Haaretz è stato inizialmente bloccato dal Ministero della Giustizia, citando il pericolo per la libertà di stampa. Ma Netanyahu e Karhi hanno semplicemente aspettato un’altra opportunità, citando infine le controverse osservazioni (ha parlato di regime di apartheid imposto ai palestinesi) dell’editore Amos Schocken per dichiarare il boicottaggio di Haaretz alla riunione di Gabinetto del 24 novembre.
“Non siamo soli nel mirino del governo”, scrive ancora il giornale israeliano. Con un cessate il fuoco in Libano e un calo dei combattimenti a Gaza, di fronte a una debole opposizione parlamentare e di strada, Netanyahu ha rilanciato il suo colpo di Stato a tutta velocità. “Siamo stati eletti e possiamo attuare un cambio di regime”, ha spiegato Karhi, che cerca anche di chiudere l’emittente pubblica israeliana, che il governo vede come “troppo indipendente”. “I suoi colleghi della coalizione – si legge ancora su Haaretz – stanno promuovendo disegni di legge antidemocratici che minacciano di minare le elezioni libere e altri mezzi di espressione politica, mentre si preparano a costruire insediamenti ebraici nella Gaza occupata”.
linea del governo
Oren Persico, noto giornalista e critico dei media israeliano, ha sottolineato che: “L’assalto del governo di Benjamin Netanyahu ai media è un palese tentativo di intimidire i giornalisti israeliani, costringerli a fare dell’autocensura e indebolire i media che continuano riferire criticamente sul comportamento e sulle politiche dei leader della nazione”. E ancora: “Le sanzioni imposte a Haaretz e il nuovo disegno di legge presentato questa settimana volto a privare dei finanziamenti pubblici Kan, l’emittente pubblica israeliana, sono progettati per colpire e intimidire la stampa libera”.
La maggioranza degli altri giornali israeliani, radio e televisioni continuano a sostenere la linea del governo e sopratutto a seguire Netanyahu. In Israele è questione di politica interna. Altrove, come in Italia, il valore dei titoli, la collocazione degli articoli nei giornali e nelle televisioni segue logiche diverse. Spesso soltanto per mantenere l’attenzione dei lettori, altre volte per “bilanciare”. L’altra sera, con, un diplomatico italiano di grande esperienza, abbiamo commentato la prima pagina di un importante quotidiano nostrano. In alto, un titolo segnalava a caratteri grandi uno nuovo feroce bombardamento russo dell’Ucraina e sottolineava “una decina di morti, quattro bambini”. Appena più in basso, nello spazio dedicato alle guerre si segnalava, in piccolo, senza nominare il responsabile, l’ennesimo bombardamento di Gaza, un’ottantina di morti e feriti, anche molti bambini. Dal punto di vista giornalistico un’errore, ma ben studiato. Ossia di Putin e della Russia possiamo parlare male; di Netanyahu e Israele, meno.
trump e l’assassino
Negli Stati Uniti, scrivono alcuni esponenti della stampa Usa preoccupati per l’atteggiamento del prossimo presidente: “Il secondo mandato di Donald Trump promette di portare minacce storiche alla libertà di stampa”. Il presidente eletto ha chiarito durante la campagna che aveva la stampa nel mirino. Durante un comizio alla vigilia delle elezioni ha detto che ‘non gli sarebbe dispiaciuto’ se un assassino avesse sparato ai giornalisti in piedi di fronte a lui. Aveva espresso la volontà di incarcerare i giornalisti, dare la caccia alle loro fonti confidenziali e annullare le licenze di trasmissione delle principali reti radio-tv.
Le azioni in difesa della libertà di stampa in Usa, paese fondamentale per la democrazia mondiale, andrebbero rafforzate con un atteggiamento meno distratto dei nostri colleghi anche in Europa di fronte al massacro (da parte delle forze armate israeliane, Stato che si definisce democratico) dei giornalisti (ormai quasi 200 in un anno) che cercano di raccontare tra tragedia del popolo palestinese nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
(articolo da La Voce di New York)
(nella foto, Shlomo Karhi, ministro delle Comunicazioni di Israele, con il premier Netanyahu)