A prossimo di “Il giornalismo è nei guai, scriveteci come si può salvare da pubblicità, politica e AI”. La risposta, secondo me, è in un piccolo libro (32 pagine) intitolato “Il giornalista”. Lo ha scritto Miriam Mafai ed è stato pubblicato da Laterza nel 2012 (tra l’altro scaricabile gratuitamente, quale omaggio dell’editore). Vi si legge: “Un mestiere finito. Dequalificato. Asservito: ai partiti, ai potentati economici, alla pubblicità. Burocratizzato. Senza più prestigio né credibilità. Malpagato”. E poi: “… non sono sicura che non ci fossero brillanti giornalisti tra coloro che in tutti questi anni hanno bussato invano alla porta delle redazioni. Non sono sicura che abbiano vinto la corsa i migliori. E mi chiedo se questo lungo tirocinio, questa lunga attesa non selezionino negli aspiranti, anziché lo spirito critico e la passione per il mestiere, la tendenza al conformismo e l’accortezza a tacere”.
Se proviamo a fare il contrario di quanto descritto, forse la baracca la raddrizziamo quel tanto che basta a non farla crollare. Ovvero dovremmo liberare questo mestiere dalle posizioni di rendita, che è un problema del Paese, ma anche e soprattutto nostro. Posizioni che non aggiungono un fico secco nella stragrande maggioranza dei casi, che invece tolgono in termini di occasioni, iniziativa, idee, vitalità a tutto il settore.
Preciso, semmai ce ne fosse bisogno, che il mio intervento non ha carattere polemico ma è, praticamente, mera cronaca per ciò che riguarda la diagnosi e forse non è malaccio per quello che riguarda la proposta. Il guaio è che il giornalismo è come tutte le cose umane ed è persino giusto che abbia una fine, perché come i matrimoni tra cugini di una volta non asseconda la natura e porta in sé l’alea di una discendenza con delle tare genetiche. Alla lunga si può arrivare alla sterilità. Credo sia il nostro caso, come attesta la nostra incapacità generare nuovi lettori.

armando.orlando74@gmail.com

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