di RAFFAELE FIENGO

Contro la guerra, proprio ora in una fase di tragico stallo, il giornalismo può fare emergere i fatti che dimostrano come, anche in queste controversie internazionali, torna a essere prioritaria la pace. Può seguire le tracce dei bambini ucraini portati in Russia, raccogliendo e ampliando il lavoro del cardinale Zuppi e quello del Quatar, che sta facendo altrettanto per riportarli dalle famiglie. Questo è uno dei temi possibili. Per dire che la carta stampata (l’espressione vale per tutti i media) non deve limitarsi a riportare dalle fonti disponibili le notizie in corso. Ma deve aggiungere quelle non emerse. Altro che Intelligenza artificiale, che racconta solo il passato.

Scendendo dal tema principale della pace e della guerra e guardando allo stato dell’informazione Italia, poniamoci una domanda concreta, approfondendo i temi trattati nel pezzo “Se il denaro compra la democrazia, cosa può fare il giornalismo per proteggerla”.

squilibrio sociale

Che cosa non fa il giornalismo italiano?

Primo esempio. Squilibrio sociale e povertà. Non si racconta come si diventa poveri e in che consista, nelle varie aree del Paese, la condizione certificata di “povertà assoluta” (un milione e 200mila bambini) da Istat e Caritas. Il lavoro italiano è pagato troppo poco rispetto a quello degli altri Paesi europei? Andiamo a vedere.

Secondo esempio. Dopo i cinque morti lungo i binari ferroviari, andare a vedere se in giro per l’Italia i lavori alle ferrovie avvenivano di fatto senza fermare i treni.

fabbriche delle notizie

Forse i discorsi passano proprio dai giornalisti, che per primi possono riaffermare il proprio lavoro. E’ più semplice di quanto sembri a prima vista. Si può partire dall’esistente oggi nelle ”fabbriche delle notizie”: le imprese giornalistiche stanno trovando un certo equilibrio economico con nuove forme tra pubblicità e marketing. Le aziende mostrano notevole interesse in quel che possiamo definire “pubblicità nativa”. Comprano spazi giornalistici (pagandoli il triplo) che siano riempiti nella forma del mezzo sul quale vanno. Se sono giornalistici saranno credibili. Di conseguenza il dominus di quel che si pubblica è il giornalista. E’ lui che comanda. Naturale. E’ evidente che c’è una dialettica non espressa che però dà ampi spazi al giornalista. Basta tenerseli.

Fuori dall’ipocrisia, abbiamo pur sempre a che fare con una “notiziabilità indotta” (se non è dichiarata chiaramente la natura pubblicitaria). E quindi resta contraddizione con l’indipendenza e la separatezza del giornalista, caratteristiche fondanti del mestiere. 

orgoglio e trasparenza

E’ ovvio che (anche in presenza di accorgimenti vari, testatine diverse come “Eventi”, “Guide” o altro) ci sono problemi di trasparenza. Non sempre è evidente che qualcuno ha pagato perché quella mostra, quell’evento sia seguito. Questo trova una correzione proprio nel primato del giornalista. Se opera. Non credo che l’orgoglio di essere giornalista sia scomparso. Proviamo a metterlo in campo.

Subito spunterebbe altro di positivo. Soprattutto chi, giornalista, ha posizioni di responsabilità nei giornali a tutti i livelli, nel nuovo ordine organizzativo può portare il correttivo del giornalista, anche quando non sembra indispensabile al prodotto ordinario e quotidiano. Capisco che possa sembrare innaturale. La nuova organizzazione che produce il giornale non ha il giornalismo prodotto in casa al primo punto, è facile che si imponga silenziosamente il principio che non si esce dalla redazione con relative spese se non c’è una copertura di sponsor. 

inviati speciali

Prendiamo la recente alluvione di Valencia. Un fatto europeo di importanza notevole, prendiamo il ciclone Vaia che ha abbattuto milioni di alberi alla fine di ottobre del 2018 nel Triveneto. Il Corriere il primo giorno non ha mandato un inviato speciale in Spagna, come al tempo della tempesta storica Vaia non è stato mandato (e tutto è presto andato nell’edizione locale). Ma non è stato un “errore” rispetto alla nuova organizzazione nel fabbricare il giornale. E’ che non ha preso corpo il “correttivo giornalismo”.

Personalmente penso che questo criterio vada promosso dovunque ci sia giornalismo, anche fuori da quello professionale. Questo è meno facile anche se indispensabile, perché il giornalismo qualificato non è in grado, in nessuna parte del mondo, di coprire tutto il campo.

proteggere i minori

L’unica strada: responsabilizzare queste fonti. Chi ha una radio in un paese, o un sito legato a una cittadina, ha certo interesse a essere credibile, sarebbe disposto ad agire con alcune /poche) regole essenziali? Credo di sì. Non si pubblica una cosa pagata senza dirlo, non si pubblica una notizia senza controllare la fonte, si proteggono i minori. In verità in passato ho pensato che le strutture del giornalismo potrebbero anche riconoscere a chi sottoscrive un paio di regole alcune tutele, anche economiche. (Questo “giornalista per adesione” piaceva anche a Piero Scaramucci, il fondatore di “Radio Popolare”, a Milano che però mi disse: non potrà mai funzionare senza un supporto economico).

bene comune

Forse ha ragione Vittorio Roidi che ha appena pubblicato il libro “Carta straccia” (Le notizie che non contano più.) Lui dice che è necessario considerare il giornalismo “bene comune”. E, in verità, è in ottima compagnia con Sergio Mattarella, che pensa la stessa cosa. Mi sono anche ricordato che il capo dello Stato si è laureato con Carlo Esposito, autore di un famoso piccolo saggio fondamentale (1958) intitolato “La libertà di manifestare il pensiero nell’ordinamento italiano”. E’ da qui che viene la chiara affermazione secondo la quale “è la libertà di parola parlata, scritta e comunque trasmessa che fa lo Stato democratico e non viceversa”. Frase che spiega il rigore di Mattarella nella difesa della libertà della stampa e che la Corte costituzionale ha ripreso, scrivendo che l’articolo 21 è la pietra angolare dell’intera costruzione costituzionale. 

                                                          

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