di ENRICO MARIA CASINI
Quando “Il Foglio” ha annunciato il suo esperimento con un quotidiano interamente prodotto dall’Intelligenza artificiale, la reazione del giornalismo ha oscillato tra stupore e diffidenza. Un giornale “vero”, come lo ha definito il direttore Claudio Cerasa, redatto interamente da AI, che si occupa di scrittura, titoli, sommari e perfino ironia. Sembrava l’alba di una nuova era. Ma è davvero una rivoluzione o, più semplicemente, una scorciatoia (o una trovata di marketing) mascherata da innovazione?
indagini e testimoni
Il primo limite evidente di questa operazione riguarda il controllo delle fonti e la verifica delle informazioni. ChatGPT opera su modelli statistici, non su indagini. Non verifica, non incrocia, non interroga testimoni (almeno finora). Genera testi coerenti, ma privi di quella tensione alla verità che distingue l’informazione di qualità.
Questo è un problema capitale: in un’epoca in cui la lotta alla disinformazione dovrebbe essere prioritaria, ci si può permettere di delegare la produzione giornalistica a un algoritmo che non distingue tra una fonte autorevole e un post virale su Facebook? Inoltre se si voleva parlare di rivoluzione, si doveva partire da un modello proprietario di AI, forse al massimo di una concertazione tra diversi prodotti standard di mercato. Non esclusivamente di ChatGPT. La strada presa è stata un’altra, più comoda, meno ambiziosa.
giocare col linguaggio
Se c’è un aspetto che distingue il giornalismo di pregio dalla produzione di contenuti in serie è la capacità di giocare con il linguaggio, di cogliere le contraddizioni, di costruire una narrazione che sia, allo stesso tempo, precisa e stilisticamente incisiva. L’AI, invece, appiattisce lo stile, replica modelli già visti e non riesce a restituire quella complessità tipicamente umana che fa la differenza tra un articolo e un capolavoro di scrittura. Il rischio è quello di trasformare i quotidiani in una catena di montaggio della parola, un’informazione standardizzata priva del guizzo che trasforma un lettore distratto in un lettore affezionato.
scrivere, non pensare
Il Foglio, in questo caso, sembra dimenticare un principio fondamentale: la tecnologia non è un fine, ma uno strumento. L’Intelligenza artificiale dovrebbe essere un supporto al lavoro giornalistico, non un sostituto. Un’AI che scrive senza una guida umana, senza un perimetro definito a priori, rischia di produrre un’informazione incapace di leggere tra le righe e di contestualizzare eventi complessi. La macchina può scrivere, ma non può pensare. E un giornale senza pensiero critico non è un giornale, è un bollettino automatico. Cingolani, ex Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica dell’Italia e Amministratore delegato di Leonardo, poco tempo fa ha fatto un paragone lampante sulla paura dell’AI con quella delle autovetture: “Se viene utilizzata male può essere pericolosa, ma la differenza risiede proprio nell’utilizzo e nella finalità da parte dell’utente”.
questione centrale
Un’evoluzione, non una lotta
Anziché integrare l’Intelligenza artificiale in modo armonioso nel processo giornalistico, Il Foglio ha scelto la via della sostituzione, come se il futuro dell’informazione dovesse essere una gara tra uomini e macchine. Ma l’Intelligenza artificiale non deve essere il becchino del giornalismo, bensì il suo alleato. La vera sfida di AI non è rimpiazzare i giornalisti con algoritmi, ma sviluppare strumenti che migliorino la qualità dell’informazione, supportino l’analisi dei dati e arricchiscano il lavoro umano senza annullarlo.
Il Foglio ha avuto il merito di sollevare una questione centrale per il futuro del giornalismo. Che non appartiene solo agli uomini o solo alle macchine, ma a chi saprà farli lavorare insieme.