di ALBERTO FERRIGOLO

All’anno 2043, in cui sarà forse acquistata “l’ultima copia del New York Times”, secondo titolo e profezie d’un libro di successo del 2007, che s’apriva col capitolo “Cambiare o morire”, mancano all’incirca 18 anni. C’è tempo per vedere come andrà, ma intanto si possono già tirare alcune somme.

I primi del Duemila sono gli anni di internet, la sbornia da web, dell’avvio travolgente dell’era digitale che segna anche l’inizio della crisi del giornalismo di carta, la caduta delle copie vendute in edicola, che non accenna ad arrestarsi, ciò che ha posto e pone un interrogativo da brividi: sopravviveranno i giornali, per come li abbiamo conosciuti nel Novecento, allo tsunami dell’ipertrofica era tecnologica? E il giornalismo, avrà un futuro?

copie digitali

A partire dalla metà degli anni ’90 la carta stampata ha perso centralità, in termini di diffusione – sfiorato il tetto “dei 7 milioni di copie vendute ogni giorno nel 1990” – di fatturato, introiti pubblicitari, investimenti, ma anche influenza, lettura, appeal. Le vendite crollano (nel 2023 i quotidiani hanno venduto in media 1,41 milioni di copie al giorno) e, di conseguenza, dal 2019 anche “il numero delle edicole è sceso da 16 mila a 13.500”. Ma le difficoltà generali “non sono certo compensate dalle copie digitali, che rappresentavano il 13% del totale nel 2013, mentre nel 2024 incidono per oltre il 20%”, però la crescita “è in buona misura attribuibile alla forte scontistica applicata dagli editori”.

Può reggere il business? Ed esiste davvero un business?

Questi e altri dati, e quesiti sottesi, sono parte del saggio “Il giornalismo ha un futuro. Perché sta cambiando, come va ripensato”, in libreria per Il Mulino/Contemporanea (euro 17), analisi del professor Carlo Sorrentino, docente di Sociologia dei processi culturali, Giornalismo e sfera pubblica all’Università di Firenze, già allievo del sociologo della comunicazione Giovanni Bechelloni.

ci sono spiragli

Nel primo quarto del secolo sono prevalse opinioni e riflessioni catastrofistiche sul futuro della professione e dei suoi mezzi, avanzate specie da coloro che hanno sempre pensato che “il prima” fosse sempre migliore del poi, oscurando così le flebili ragioni degli ottimisti, sia pur per ostinata volontà. Sorrentino è tra quest’ultimi. Vede spiragli. Non foss’altro perché, nel frattempo, il New York Times, quotidiano planetario in lingua inglese, “ha raggiunto 10 milioni di abbonati nel 2024”, da quando nel 2011 ha deciso d’investire in tecnologie “per bilanciare i ricavi del digitale con quelli derivati dalla carta”; il francese Le Monde 500 mila e lo spagnolo El Paìs 300 mila, a fronte d’una sempre più “dichiarata ritrosia del pubblico a pagare per ottenere notizie”, tant’è che nell’ultimo anno, rileva il professore, “nei 20 paesi più ricchi al mondo soltanto il 17% delle persone dichiara di aver pagato per notizie online”.

Le quali, per altro, si trovano ad ogni angolo dell’autostrada mediatica, contribuendo a un “sovraccarico informativo” attraverso cui si fa “fatica a tenersi aggiornati e l’incessante flusso di informazioni determina sensazioni di esaurimento, ‘burnout’ e ‘tecno stress’” fino a determinare il “fenomeno dell’evitamento delle notizie”.

“Dove l’ho letto?”

“Bombardati” dalle news, si fa persino fatica a ricordare da quale media si sia appresa una notizia (“da qualche parte l’ho saputo”). Il risultato è “una consultazione più rapida e distratta”, con un’altissima “frammentazione” delle fonti. A fronte di un’area del notiziabile che s’è allargata a dismisura, non solo per la varietà dei temi “di cui il giornalismo ha iniziato a interessarsi” negli anni, ma anche per il numero delle persone che sono diventate al tempo stesso soggetto e oggetto delle sue attenzioni, “attori, cantanti, sportivi, fino ad arrivare – con l’avvento del digitale – agli ‘influencer’”.

In questo percorso dall’analogico al digitale, però, il pubblico sembra esser tornato “al centro”, protagonista, annota Sorrentino, che osserva: “Nella cassetta degli attrezzi dei giornalisti da sempre c’è anche la capacità di comprendere i gusti del pubblico”, secondo la frase “sappiamo bene cosa vuole”, affidandosi all’intuito – al “fiuto”, al “naso” – per le notizie, ma ora “le logiche di marketing sono entrate nelle redazioni, aiutando sempre più i giornalisti nel confezionamento delle notizie”, secondo una logica di “market-driven giornalism”.

negoziare con le redazioni

Ma cosa vuole davvero il pubblico?

Secondo Sorrentino, l’interrogativo oggi “non è più un riferimento vago affidato all’intuito professionale, ma diventa una leva fondamentale per la gestione delle aziende”. Grazie allo sviluppo tecnologico, ai click, agli algoritmi che monitorano i consumi informativi, “negli uffici marketing – osserva il professore – si sviluppano competenze professionali chiamate a negoziare con le redazioni le strategie migliori per allargare la platea dei propri fruitori”, negoziazione che “spesso avviene sull’innovazione del prodotto giornalistico”, quando invece non “si preferisce cedere alle sirene della gadgettistica”.

Accanto all’“ampliamento del notiziabile”, temi, eventi e attori sociali di cui parlare aprendo anche ad argomenti un tempo “negletti”, “crescono le soft news che insistono su logiche d’intrattenimento, rendendo più ricche e succose le cronache sportive e degli spettacoli, gli articoli sulla salute, sulla gastronomia, sui viaggi, sulla cura del proprio corpo”, contribuendo per altro a rendere meno netta “la distinzione fra informazione e comunicazione”, per andare “oltre il giornalismo”.

materia in movimento

Quest’ultimo, in ogni caso, è materia magmatica, in movimento. Al punto che, “mentre prima il lavoro giornalistico terminava con la pubblicazione, adesso inizia con la pubblicazione”. I giornalisti, diversamente da prima dell’avvento del digitale, “seguono in tempo reale l’interesse per quanto pubblicato, valutando il traffico che la notizia produce (…) in un dialogo costante con il proprio pubblico” e al tempo stesso si tratta di “indicatori che orientano lo sviluppo da dare alla notizia (…), c’è un lavorìo molto puntuale per ‘curare’ la notizia e stabilirne il ciclo”.

In questo quadro, in un mondo denso di notizie, delle 5 W che regolano la stesura d’un articolo, quella che assume più rilevanza nel contesto generale è Why?, perché?, che è poi la necessità di contestualizzare, spiegare, approfondire, per aiutare il lettore a orientarsi e capire.

longform e viralità

Nascono i longform, ma al tempo stesso “i giornalisti sono chiamati a ripensare la propria istituzione per gestire adeguatamente una marea di informazioni, spesso prodotte con l’unica intenzione di generare traffico sulla rete per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e rendersi attraenti per gli investitori pubblicitari”. Tutto si fa “condivisibile”, aggiornabile, work in progress costante, frenetico. “C’è bisogno di notizie ‘fresche’ 24 ore su 24”. Non c’è più deadline, tempi di chiusura, il flusso è costante perché l’imperativo categorico è “arrivare per primi”, “avere notizie in esclusiva”, “bruciare sul tempo i concorrenti”, creare “viralità”. Un inferno? Forse, anche.

Si potrebbe anche riassumere che tutto quanto fa notizia, al punto che “se la porta d’accesso alla fruizione dei contenuti diventano le nostre bacheche social – osserva il professor Sorrentino – attraverso cui, non soltanto le testate con i loro profili social ma anche tutti i nostri ‘amici’ e contatti, possono segnalarci eventi e/o servizi (…) il lavoro giornalistico si verticalizza nella produzione di un preciso contenuto, che percorrerà contenitori personali molto mobili, cioé -appunto- le nostre bacheche dei social maggiormente utilizzati”, Facebook, Twitter ora X, YouTube.

profili social

Riflette Sorrentino: “È finita l’epoca in cui il giornalista aveva il controllo totale sugli eventi e sui fenomeni che descriveva. (…) Il campo giornalistico è diventato molto più articolato, con nascite di start up e un’impennata del numero dei freelance e di giornalisti che realizzano newsletter, podcast, trasformando la loro firma in un brand” e che, nell’allargamento dell’area del notiziabile, diventano essi stessi fonti di cui tener conto, eventualmente riprendere e citare. Ciò che al tempo stesso finisce per complicare il lavoro giornalistico in sé e per sé, perché il giornalista – facendo solo il piccolo caso della politica cittadina – non può più limitarsi alla semplice routine (consiglio comunale, sala stampa, conferenze stampa, contatti diretti con i politici), ma deve anche “regolarmente seguire i profili social di tutti coloro che attivamente partecipano alla politica cittadina, comprese le istituzioni e le organizzazioni che dialogano con il Comune nelle più disparate attività”.

Da un lato s’allarga il notiziabile, dall’altro la quantità delle fonti, nel mentre il giornalismo in sé ha finito per perdere “la titolarità esclusiva della notizia” in quanto il pubblico è come se si trovasse in un grande supermarket dai cui scaffali può prendere le news che vuole o affidarsi a quel che gli suggeriscono gli algoritmi. Il risultato è che se tradizionalmente il giornalismo è stato “l’istituzione incaricata di ‘trasportare’ le informazioni da una fonte a un pubblico”, oggi il nuovo “patto informativo” tra cittadino e opinione pubblica vede quest’ultima che “monitora, controlla, vigila, critica, cerca nell’informazione nuove forme di rappresentanza e di intermediazione discorsiva”. Il giornalismo, insomma, può tornare “a esser rilevante”, secondo il professore, ma non “centrale”. In quanto “sono troppi gli eventi da coprire, le prospettive da offrire, ma anche notevolmente distanti gli interessi delle persone”.

mettere in ordine

Quindi?

Il giornalismo va considerato come “una guida”, ma non può pretendere “di restituire il mondo in mezz’ora o in 48 pagine”, non può pretendere “di mettere in ordine il mondo”, perché “la capacità dei giornalisti di imporre l’agenda è inversamente proporzionale alla numerosità dei canali disponibili e degli attori sociali che partecipano a produrre, elaborare e trasmettere informazioni”. Da parte dei media c’è più “una visione del mondo” che una “linea editoriale”. Cioè avere una “identità competitiva” in un “rapporto forte con il proprio pubblico”.

In definitiva, oggi prevale e comanda il marketing, la possibilità di conoscere in tempo reale “il grado di diffusione e di gradimento di un articolo”, commento o riflessione che sia, ma “ora davvero i giornalisti sanno cosa vuole il pubblico, grazie alla peculiarità di tecnologie in grado di svelarne il successo”. Il tutto all’insegna d’una sorta di affiliazione (di uomini, mezzi, prodotti, pubblico) che cerca “di cementare l’appartenenza attraverso esperienze del vivere insieme”, anche attraverso Festival delle idee, incontri con le firme, dibattiti, Academy, forum. Oppure di trasformare “un’operazione commerciale come gli abbonamenti”, ad esempio, “in qualcosa di diverso”, “l’adesione a un progetto, a uno specifico modo di intendere il giornalismo”.

tecniche e dinamiche

In altri casi la cosiddetta fidelizzazione del pubblico avviene invitandolo “a partecipare alle fasi di elaborazione della notizia”, invitandolo alle riunioni di redazione online, ad esempio, o inviando messaggi. Se poi il giornalismo avrà davvero un futuro nelle sue poliedriche forme è da vedere. Il contesto è radicalmente cambiato. Come le tecniche e le dinamiche. Quel che è certo è che questo è il futuro (e il presente) del giornalismo, che per il momento accantona termini quali “crisi”, “fine”, “scomparsa”, “morte”. Da qui si può intravvedere ancora un futuro…

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