di ALBERTO FERRIGOLO
“Io sono una cosa molto piccola nell’ingranaggio dell’informazione, però quando ho fatto quel post non credevo certo che avrei suscitato tutto quel ne è seguito. Però se c’è stato è anche perché descrive quel che succede un po’ ovunque nel mondo del lavoro”.
Barbara D’Amico è la giornalista che circa cinque mesi fa ha lasciato di stucco tutti per essersi dimessa dalla redazione del blog La nuvola del lavoro, fondato dall’inviato ed editorialista Dario Di Vico e affiliato al “Corriere della Sera”, rifiutando il taglio d’ufficio del 15% del compenso. Aggiuntosi a un precedente taglio del 25%. Lei ha detto solo: a queste condizioni non ci sto. Scatto di reni, orgoglio professionale e personale.
Classe 1983, 37 anni a luglio, romana, Barbara D’Amico vive e lavora a Torino da quasi un decennio. Da quando, intorno al 2010, è rientrata da Bruxelles dopo aver lavorato per un anno, conseguita la laurea in Giurisprudenza, come consulente di uno studio belga in materia di normativa europea. “Un’esperienza da cui ho ricavato la convinzione che non volevo finire burocrate”. Passione per l’inchiesta, l’approfondimento e “lo scavo normativo”, già in nuce negli anni del liceo, messa in opera in quelli universitari lavorando per la prima testata total digital romana, “Rivistaonline”. Tornata da Bruxelles ha frequentato tra il 2010 e il 2012 la Scuola di giornalismo Giorgio Bocca di Torino – “la mia seconda palestra” – che le ha aperto le porte di “Radio24”, del “Sole 24 Ore” e dei suoi inserti, fino allo stage di sei mesi nella redazione de “La Stampa”. “Quindi il ‘Corriere’” tra il 2013 e il 2014.
Da freelance “pura”, s’è trovata una scrivania nello spazio di co-working Talent Garden del capoluogo sabaudo “per non lavorare in solitudine”. Ha poi co-fondato un’agenzia che per quattro anni ha funzionato da service per testate, gruppi editoriali, aziende, fornendo infografiche d’informazione e comunicazione.
Dopo il post in cui hai annunciato le tue dimissioni, qual è stata la reazione del mondo editoriale e giornalistico? Hai incontrato difficoltà?
“No, due giorni dopo il post sono stata letteralmente assalita con proposte e offerte. Mi hanno cercato da ‘Fanpage’, dal ‘Foglio’. Ho valutato le proposte e ho scelto quel che più m’interessava. Difficoltà direi di no. Con il Covid, poi, alcune cose si sono congelate. Ho 36 anni e nella mia testa già sapevo che non avrei fatto la freelance per tutta la vita. È faticoso e anche molto logorante”.
Hai mai avuto un contratto nella tua esperienza lavorativa?
“Mai. Però ci tengo a dire che non sono una finta partita Iva sfruttata dal giornale. Per non esserlo bisogna sapersi fermare e non dire sì alle collaborazioni a 10 euro”.
In che modo ti definiresti, allora?
“Sono un po’ figlia della crisi economica del 2008. Ho iniziato la professione allora e già c’era la crisi dei giornali, che però penso esista da quando Gutenberg ha creato i caratteri mobili. Sono un bene necessario ma non indispensabile. Bene pubblico che ogni tanto il mercato boccia. E ciclicamente crolli con lui. E’ un dato strutturale”.
Come funziona il mondo del lavoro autonomo?
“Se penso alla ‘Nuvola del lavoro’ credo potesse essere una scommessa, ma poi è stata lasciata andare. La verità è che non si scommette più di tanto sui prodotti giornalistici mentre c’è – mettiamola così – una grande fantasia gestionale, molta creatività nei termini d’ingaggio e nelle condizioni di lavoro. Un grande caos su come gestire le collaborazioni, sul come renderle sostenibili”.
Nel post fatto insisti molto sulla deregulation. L’Italia è un Paese in cui il lavoro dei freelance non è né riconosciuto né regolarizzato e in balia delle leggi del mercato?
“È l’approccio al mercato del lavoro in generale che scontiamo, da prima della crisi del 2008. C’è un totale disinteresse per tutto ciò che accade fuori dal perimetro del posto fisso. Pur vedendo che piano piano si andava verso una forma di precarizzazione generale – che a me piace però definire ‘flessibilità’– non s’è mai affrontato il problema. La cultura intorno al posto fisso è sempre stata sempre molto ingessata, vedi la discussione sull’art. 18”.
Quale spazio per i freelance?
“Per capire come sono considerati in Italia partirei da un dato culturale, assai poco attento all’aspetto della loro professionalità. Il freelance è visto come un qualcosa ‘di meno’. Una percezione diffusa. Con una contraddizione di fondo: se si osserva, in percentuale, quanti sono i prodotti editoriali realizzati da profili freelance, ci si rende conto che c’è un problema, lo dicono gli stessi dati Inpgi: migliaia e migliaia di iscritti come lavoratori in proprio rispetto a quanti hanno un contratto indeterminato. È già cambiato il rapporto. Una minoranza ha il posto fisso. Allora, se è cambiato il modo di fare questo mestiere, perché non adeguare anche gli strumenti con cui inquadrarlo?”.
Chi dovrebbe farlo per primo?
“A rendersene conto dovrebbero essere proprio gli editori. Sono loro che si ritroveranno con sempre minor qualità, del lavoro e dell’informazione. Se non cambiano i parametri retributivi, gli investimenti e le attenzioni sul lavoro, la qualità e la fatica di produrre, non ci si potrà poi lamentare se nascono le fake news… Che sono la conseguenza di una cultura dell’abbandono di un ‘metodo di lavoro’ e di una discussione. È chiaro, quindi, che poi non si può cambiare in un mese sull’onda di un’emergenza virale. Ora si sono attivate delle spie, sono scattati degli allarmi”.
Il paradosso è che i giornali sono piene di tematiche sul lavoro. I diritti. Descrivono la trave, non la pagliuzza…
“Non voglio arrivare a dire che se non sei puro non puoi permetterti di trattare certi argomenti, perché altrimenti non avremmo nemmeno i giornali da leggere… Però almeno porsi delle domande, avviare un dibattito, essere onesti con i propri lettori, altrimenti diventa difficile sostenere un minimo livello informativo e di comunicazione. Il lettore ci fa subito caso. È il nostro cliente”.
A che cosa fa subito caso il lettore?
“Il lettore non è stupido. La crisi dei giornali non è solo dovuta alla concorrenza di internet. Evidentemente si è anche rotto un rapporto di fiducia, quel legame va quotidianamente coltivato e oggi è molto più difficile che in passato. Un tempo stampavi e chi leggeva leggeva. Al massimo i feedback rimanevano nei bar perché era lì che il giornale veniva letto, veniva discusso, ma non lo sapevi, non ne avevi riscontro se non nelle lettere al direttore. Oggi è diverso, tutto è più alla luce del sole. C’è un magma di reazioni che creano anche comunità. Te ne devi occupare e non è neanche una scelta ma un obbligo. O fai così o soccombi”.
Cosa si dovrebbe fare, allora?
“Mettere chi lavora nelle realtà editoriali nelle condizioni di poter erogare questo servizio al meglio. Purtroppo di questo c’è poca consapevolezza. E finché non ci sarà l’implosione dei giornali, che un giorno non troverai più in edicola perché falliti, non ci sarà né attenzione, né riflessione. E poi parliamo di strutture elefantiache…”.
Che sono frutto delle logiche espansive degli anni Ottanta, del boom della pubblicità: supplementi, inserti, allegati, quando si teorizzò che “la pubblicità è l’anima del giornalismo” e il notiziabile s’è ampliato al dismisura.
“Certo. ‘Ti mando questo comunicato perché ho fatto una cosa fichissima…’ è la logica delle aziende. Ma se di pubblicità si tratta, perché allora non compri lo spazio? Certo, esiste anche il brand journalism, giornalismo sponsorizzato che non parla delle aziende in particolare, perché l’articolo è finanziato da uno sponsor. Non c’è nulla di male, purché sia trasparente e comprensibile al lettore. In qualche misura il discorso si ricollega anche alla mia vicenda e al fatto che la mancata ricerca o anche solo la riflessione su come rendere sostenibile il giornalismo ha poi portato a considerare noi collaboratori freelance, giornalisti esterni, come qualcosa di sacrificabile, da dare in pasto al mercato. Che poi ci pensa lui a selezionare e a fare il prezzo. Io penso che il mercato debba invece premiare le realtà che fanno giornalismo di qualità”.
Però pure il compenso è standardizzato, non commisurato alla qualità del prodotto ma al numero delle righe. Il ”taglio” è netto.
“Il compenso è visto come un costo da tagliare. Mentre dovrebbe essere considerato un investimento, questo è il nodo. Così come lo dovrebbe essere l’assunzione. Il taglio senza una visione di dove andare è inutile. E quando è lineare è strutturale. Se sei una firma che con le sue qualità attira lettori, sei una risorsa e il guadagno si giustifica. L’investimento ha un senso. Ma il ragionamento va anche ribaltato”.
Cosa intendi?
“Se l’editore non ha risorse sufficienti per permettersi di pagare i collaboratori in modo decente per un ritorno di qualità, allora è meglio dire che non c’è budget. Sarebbe più onesto. Invece siamo al ‘ti do 10 euro e ringraziami pure che ti sto pagando per il servizio’. È un ragionamento che danneggia tutti. Pensiamo al mono-committente che guadagna 8-900 euro al mese e non si può neppure permettere di protestare perché se perde quell’introito ha perso tutto… Chi ha la responsabilità dentro e fuori le redazioni dovrebbe dire no, così non va”.
Ultimo tema: il rapporto con il sindacato. C’è, non c’è?
“Per noi freelance è quasi inesistente. Molto dipende anche da noi, non è che gli altri devono venire a cercarti. La presenza c’è, ma poi ti dicono: ‘Non abbiamo gli strumenti per intervenire, per tutelarvi e difendervi fino in fondo’. La differenza è tutta lì: un conto è avere un contratto, un altro essere una partita Iva. O esser pagati a pezzo. Poi ci sono anche le finte partite Iva, collaboratori mono-committenti non assunti, non regolarizzati, non tutelati. Avremmo bisogno di una normativa più stringente. Con i Cdr, invece, rapporti mai”.
Morale della storia?
“I freelance dovrebbero avere la capacità di dire di no a tutte le situazioni poco chiare, ambigue. Non fanno bene né al lavoro né alle tasche… Non amo i conflitti esterni-interni, anziani-giovani, ma se si vogliono trovare dei punti di contatto si trovino, purché presto, altrimenti non si va da nessuna parte”.
(nella foto, Barbara D’Amico)