di ALBERTO FERRIGOLO
Perché, editorialmente parlando, ciò che vale a Londra non può valere anche per Roma, oppure Torino, Genova e le città dove il Gruppo Gedi edita i tredici quotidiani locali dell’ex Gruppo L’Espresso? Nella capitale inglese ha sede l’”Economist”, in quella italiana “la Repubblica”, nel capoluogo piemontese “La Stampa”, in quello ligure “Il Secolo XIX”, testate che fanno capo a Exor, che controlla Gedi e Fiat-Fca. La domanda sorge spontanea dopo il brusco licenziamento di Carlo Verdelli e la sua sostituzione con Maurizio Molinari al timone del quotidiano di Largo Fochetti, nel quadro di un cambio di direzioni all’interno dello stresso gruppo editoriale.
“The Economist” – dove la famiglia Agnelli, tramite Exor, detiene il 43,4% della quota azionaria dopo aver acquistato il 12 agosto 2015 dal Gruppo Pearson il 28,7% delle quote ordinarie oltre a tutte le azioni speciali di categoria B, per 287 milioni di sterline, (405 milioni di euro) di tasca propria – è da sempre un “modello di indipendenza editoriale”. Infatti, la preoccupazione di mantenere la sua reputazione di integrità consiste nella capacità di affrancarsi dagli interessi economici della proprietà e dei suoi azionisti. Una dote di credibilità e di autonomia che si è guadagnato nei suoi 177 anni di vita, specie nel caso in cui si dovesse venire a creare una figura di azionista in posizione dominante.
Il primo aspetto riguarda l’impossibilità, sancita al momento della fondazione del settimanale, sia per un singolo sia per una organizzazione, di possedere la maggioranza delle quote. Una circostanza, quest’ultima, che circoscrive o modifica, in maniera sostanziale, il ruolo che viene ad avere usualmente la proprietà.
Tuttavia, il limite non superabile del 50% delle quote è necessario ma non sufficiente a scongiurare un’influenza che può pesare in maniera decisiva sulla linea editoriale. Talvolta, infatti, si riesce a incidere anche con una posizione abbondantemente al di sotto di quella soglia.
La cosa interessante, e al tempo stesso anche complessa, nel caso dell’”Economist”, è che non esiste “un proprietario” nel senso che di solito si attribuisce a questo termine. Esistono semmai due proprietà distinte – A e B – che si suddividono le quote del possesso della testata, rinunciando al tempo stesso alla prerogativa di individuare all’interno dell’azionariato un soggetto o un gruppo principale di riferimento. Ciò costituisce un importante marchingegno a tutela dell’autonomia editoriale, concepito per ridimensionare l’intervento degli azionisti sul giornale.
Ma non finisce qui. C’è infatti un secondo meccanismo, a garanzia generale del settimanale, che riguarda la nomina ma anche la rimozione del direttore. Quest’ultima è sottoposta al controllo di un organo indipendente da qualsiasi forma di espressione economica e politica: si tratta di un “Board of Trustees”. Questo “comitato dei garanti” fa sì che la logica usuale secondo cui il direttore deve rendere conto alla proprietà della linea editoriale del giornale venga di fatto ribaltata o sovvertita. Un percorso al quale l’”Economist” è arrivato in tre anni, dal 1925 al 1928, in occasione del primo cambio di proprietà della storia del giornale, consolidando così le basi di una tradizione d’indipendenza che si propone come un vero e proprio “modello”.
L’ultima parte del paragrafo 41 dello Statuto dichiara che nel prendere le proprie decisioni sul trasferimento eventuale di quote, sulla nomina del direttore e su ogni altra questione attinente gli equilibri, i garanti devono badare solo al mantenimento della “miglior tradizione e della filosofia generale” dell’Economist newspaper e “all’interesse generale piuttosto che personale”.
Presupposto, cuore e centro di questo complesso meccanismo è l’assoluta integrità dei componenti del cosiddetto gruppo di sorveglianza. Cosicché, in sostanza, la gestione complessiva del settimanale è affidata a tre differenti centri di potere, che sono il direttore, il Consiglio di amministrazione e il Board of Trustees. E il primo, che di fatto gode di un potere e di una responsabilità assoluti in relazione alla politica editoriale, si interfaccia – rendendo contro delle proprie decisioni e azioni – solo con i Trustees. I quali hanno l’ultima parola sulla sua nomina come, appunto, sulla sua rimozione. Mentre il Consiglio d’amministrazione classico è espressione diretta della proprietà e, in quanto tale, detiene nelle proprie mani solo la gestione economica.
Insomma, l’autonomia del giornale è il frutto di un possibile punto d’incontro tra forze tra loro contrapposte. In cui la risultante, nell’intento degli investitori, dovrebbe sempre essere il raggiungimento della produzione di utili attraverso la propria impresa, mentre compito e obiettivo dei giornalisti è offrire al pubblico un’informazione puntuale e imparziale.
Ora è stato scritto che l’intento di John Elkann sarebbe quello di sottrarre, in particolare “la Repubblica”, a quel ruolo di “giornale di sinistra” che ha sempre avuto – con vicende alterne – sin dal suo atto costitutivo, il 14 gennaio 1976. Intendendo per sinistra, quel “luogo della passione, officina mentale, stato d’animo” in cui tutto lo schieramento di preferenze politiche scompaginate “cercava di comporsi e impaginarsi, confrontando le proprie ispirazioni e frustrazioni e preferenze con le opinioni del giornale come se questo fosse, oltre che un organo di informazione, soprattutto un termine di paragone e condivisione dei giudizi”, secondo l’analisi che ne fece, verso la fine degli anni Novanta, Edmondo Berselli. Ovvero, “la Repubblica” come una certa “idea dell’Italia”, che in molti hanno voluto storpiare nella formula “giornale partito”.
Scegliendo per Largo Fochetti il profilo di un direttore come quello di Maurizio Molinari sembrerebbe che Elkann voglia equiparare la qualità dell’informazione del quotidiano fondato da Scalfari ad uno standard di tipo europeo, di cui il settimanale inglese è un oggettivo interprete, pur essendo l’Inghilterra ormai fuori dall’Europa. Quindi un giornale meno “partigiano”, se vogliamo, proprio nell’era in cui, dall’introduzione del sistema elettorale maggioritario in poi, i quotidiani italiani si sono trasformati un po’ tutti in strumenti “di partito”, in quanto “voci di parti”.
Nelle intenzioni, i propositi giornalistici di Elkann-Molinari potrebbero essere interessanti, se non fosse che proprio sugli aspetti degli interessi proprietari di Exor-Fca si è manifestato un incidente domenica 17 maggio. Quel giorno è stato pubblicato il contestato articolo sulla “Formula innovativa. Un modello per tutta l’economia”, a sostegno della richiesta di un prestito del valore di 6,3 miliardi sollecitato da Fca al governo, pur in presenza di un dividendo da 5,5 miliardi (di cui 1,6 alla holding Exor), da redistribuire tra i soci, come previsto nell’intesa per la fusione con Psa. Viene da chiedersi: quell’articolo avrebbe potuto essere pubblicato su The Economist? Elkann lo avrebbe mai sollecitato, salvo il fatto che lo Statuto del settimanale inglese l’avrebbe in ogni caso impedito?
Se l’intento di Elkann-Molinari è di allineare la qualità dei propri giornali agli standard europei, e dell’”Economist” in particolare, essi dovrebbero attenersi alle regole inglesi. Tanto più che Elkann rientra oggi nel settore dell’editoria quotidiana, dopo che Sergio Marchionne fece uscire la famiglia Agnelli da Rcs e dal “Corriere della Sera”, per controllare il suo grande rivale, “la Repubblica”, al cui gruppo per altro lo stesso Elkann aveva ceduto precedentemente “La Stampa”.
“Sarebbe bello se Exor decidesse, coraggiosamente, di adottare anche in Italia, nei giornali editi da Gedi, l’assetto volto a preservare l’indipendenza della linea editoriale e la credibilità dei periodici applicato in Gran Bretagna”, ha scritto Salvatore Bragantini, economista e già commissario Consob, lo scorso dicembre su lavoce.info. “Ora anche il ‘Corriere’ prenda esempio dal modello di governance dell’’Economist’”, aveva invece sollecitato il senatore del Pd Massimo Mucchetti, già editorialista economico e finanziario di via Solferino e prima ancora vicedirettore a “L’Espresso”, nell’agosto 2015 quando venne fatta l’operazione 43% dell’”Economist” da parte di Exor, per poi aggiungere: “Se lo facesse, eviterebbe di far considerare Fca come l’unico gruppo automobilistico occidentale che controlla o partecipa al controllo di due dei principali quotidiani del proprio Paese”.
Finora non è stato così, perpetuando invece l’anomalia italiana dei quotidiani espressione dei diretti interessi dell’editore.
E facendo gli inglesi solo a Londra.