(V.R.) Piccolo è bello, talvolta bellissimo. In tempo di crisi della carta stampata spuntano giornali preziosi. Portano notizie che hanno radici e ascolti nei territori di Bergamo e sono scritti con fatica, passione, sentimento. Al tempo del Covid giornali così fanno sperare anche i più pessimisti.
Si chiama Araberara, una rivista che non parla di influencer e pettegolezzi, ma ha deciso di raccontare come sono vissute centinaia di persone stroncate dall’epidemia. La sua storia, racconta il direttore Piero Bonicelli, è andata così.
“A marzo di questo anno terribile, il 2020, ci eravamo guardati negli occhi quando un anziano era passato in redazione con la foto di sua moglie che non ce l’aveva fatta. Ci aveva chiesto cosa sarebbe potuto costare raccontare la sua storia, e abbiamo deciso di dare spazio a tutti, voci, cuori e sentimenti perché chi se ne era andato non poteva ridursi a un numero dentro statistiche da ricordare ai posteri. E così abbiamo passato giorni e qualche notte ad ascoltare, raccogliere, ricordare chi un saluto non aveva potuto averlo”.
Araberara è un giornale di carta che vende quasi diecimila copie e ha anche una robusta edizione on line. E’ letto dai bergamaschi, dagli abitanti della Val Seriana (che ha subito uno spaventoso lock down) della Val Cavallino, di Sebino, di Clusone. Bonicelli lo ha fondato, ci ha creduto, ci ha speso la vita. “L’idea di un giornale locale l’ho coltivata fin da ragazzo. In seminario scrissi un articolo su Alere (la rivista del Seminario) in occasione dell’ordinazione dei preti novelli che valse, mi disse il mio professore di latino, una riunione tempestosa in Curia, rasentando la lesa maestà, se non proprio l’eresia di cui racconta Pirandello in una sua novella”.
Bonicelli ha fatto una lunga esperienza anche nelle radio private, poi è tornato alla carta stampata. La testata l’ha registrata nel 1986, il 10 maggio dell’anno dopo è uscito il primo numero: “Volevamo fare un giornale che non fosse legato a un paese, una valle, ci sembrava di mettere confini territoriali, di imprigionarci per conto nostro”.
Il nome, Araberara è legato a un’antica filastrocca, che raccontava la favola della bella principessa Ara, della famiglia veneta dei Cornaro di cui si era invaghito un ambasciatore di Milano, che poi per gelosia l’aveva uccisa. Una cantilena che era stata tramandata e storpiata, nei secoli passando da una bocca all’altra. La rivista è nata dal desiderio di raccontare le vite di uomini e donne che lavorano, soffrono, discutono. Ogni storia “è trattata come se quel paesetto, quel borgo fossero la capitale del mondo, perché in fondo per chi ci abita quello è il centro del mondo”. E’ un sogno che si è fatto realtà – ha scritto Bonicelli – un giornale che “scrive storie di gente comune, che se le tramanda e se le racconta e se le inventa ogni giorno, magari colorandole un po’, come la filastrocca della testata”. Ci sono il lavoro, l’economia, la politica di queste popolazioni. E ora sta uscendo anche un libro, che si chiama “Lo Spoon River al tempo del Covid”. L’epigrafe è di Fernando Pessoa: “Vivere è appartenere a un altro, morire è appartenere a un altro. Vivere e morire sono la medesima cosa. La vita è il lato di fuori della morte”.
Quanti giornali così potrebbero esistere, anche al tempo della pandemia, del lutto, della crisi economia e sociale? Tutti potrebbero fare il proprio Araberara. “Noi raccontiamo storie di estrema periferia, quelle che rendono vivo un paese che senza storie condivise degrada a dormitorio. Che poi è il mestiere del giornalista. Questo giornale vive per i grandi e piccoli cantastorie che ci scrivono. E per i grandi e piccoli che li leggono. Fin quando ci saranno storie da raccontare noi ci saremo. Il giorno in cui le storie finiranno, finirà anche la storia questo giornale. Che è il sistema migliore per augurarci lunga vita, perché è come augurarla a voi stessi”.
(nella foto, Piero Bonicelli)