Sabato 2 gennaio 2021 la Repubblica celebra l’abbraccio di Maurizio Molinari, direttore dallo scorso 25 aprile, con Eugenio Scalfari, fondatore e direttore dal 1976 al 1996. L’uomo che sta portando Repubblica lontana dai suoi “spiriti animali” della sinistra laica, radicale e un po’ liberale e il padre nobilissimo del giornale si incontrano e in qualche modo stringono un patto di non belligeranza.

Molinari va a piazza della Minerva, viene ricevuto nel salotto di Scalfari, “circondato di libri”, e poi produce un’intervista di tre intere pagine.

La notizia è l’intervista.

Che contiene due passaggi da rimarcare.

Si parla di Gobetti, di Pannunzio, di Amendola (Giovanni), di La Malfa (Ugo), di Togliatti e di De Gasperi, di Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, di Carlo Rosselli, Altiero Spinelli e Gaetano Salvemini. “Dialogo sul riformismo”, si intitola il pezzo di Molinari. Dopo tanto excursus storico, l’intervistatore chiede: “Insomma il riformismo come chiave di lettura dell’Italia, da Carlo Rosselli a Enrico Berlinguer, ed anche del giornalismo dal Risorgimento liberale al Mondo fino all’Espresso e Repubblica, due storie parallele…”

E Scalfari: “Sono i due processi che hanno portato a Repubblica, giornale della sinistra democratica italiana, riformista ed europea, che Ezio Mauro ha continuato dopo i miei vent’anni di direzione”.

Ezio Mauro dunque è l’unico dei quattro successori di Scalfari citato in tre pagine. L’unico che Scalfari ha davvero designato. Per Mario Calabresi ci fu un blando gradimento, con Verdelli ci fu vera simpatia: Scalfari gradiva lo stile scapigliato. Su Molinari, Scalfari non è stato neanche consultato. E adesso, nell’intervista del 2 gennaio, rende onore a uno soltanto.

Altra domanda, poco prima, verso la fine, nell’ultima colonna, quando l’estensore e anche il lettore diventano un po’ stanchi e meno vigili: “Che cosa ricordi del rapimento in via Fani?”. Risposta di Scalfari: “Poco prima del giorno in cui fu rapito, Moro mi aveva invitato nel suo studio spiegandomi il programma del nuovo governo che stava per nascere con il voto anche della sinistra: ‘Fra 15 giorni vado in Parlamento e propongo un’alleanza con il Pci’, mi disse. ‘Per due legislature’, aggiunse. Berlinguer era morto e Moro al momento non voleva il Pci al governo ma nella maggioranza parlamentare”.

Berlinguer era morto? No, il segretario del Pci sarebbe morto (come ricordato decine di righe prima, nella stessa intervista) nel giugno 1984, ebbe un malore durante un comizio a Padova. Scalfari forse voleva dire “politicamente morto”? Giudizio perlomeno da argomentare, visto che Berlinguer stava faticosamente realizzando la sua strategia del compromesso storico, poi interrotta dall’azione delle Brigate Rosse.

I correttori di bozze, inghiottiti dalla modernità, avrebbero almeno sommessamente fatto una domanda: Direttore, il testo lo vuole proprio così?

Sul sito online repubblica.it, qualche ora dopo l’uscita del giornale in edicola, il brano sulla morte di Berlinguer è stato rimosso.

Domenica 3 gennaio, sull’edizione di carta, sezione Cultura, pagina 33, sei righe: “In un passaggio dell’intervista a Scalfari di ieri compare una data errata della morte di Berlinguer che è invece esatta in un altro. Ce ne scusiamo con i lettori”.

Professione Reporter

(nella foto, Eugenio Scalfari)

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