di FABRIZIO PALADINI
Non è una serie per giovani. Si potrebbe con questa perifrasi sintetizzare “SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano”, la miniserie da 5 puntate che Netflix ha messo in rete rievocando nascita, splendore e caduta della più importante e più grande comunità terapeutica per tossicodipendenti d’Europa.
In realtà c’è un difetto di base: il protagonista di tutta questa storia raccontata con una bella costruzione e una grande quantità di documentazione d’archivio, non è tanto San Patrignano, ma il suo fondatore e uomo immagine Vincenzo Muccioli. Sì, perché Muccioli è morto ormai 25 anni fa e la comunità ha continuato a vivere, ad ospitare ragazzi con problemi di droga, ad avviarli al lavoro, a reinserirli nella vita di tutti i giorni. E di tutto questo, dal giorno della sua morte il 25 settembre del 1995, nel documentario non c’è traccia. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa succede oggi laggiù, sulla collina di Coriano, di come le attività lavorative di questa comunità-azienda sono cresciute imponendosi addirittura nel mondo in alcuni suoi settori produttivi, di come sia stato facile o difficile gestire il dopo Muccioli, di come certe ombre allungatesi a dismisura proprio grazie alla discussa personalità del Fondatore siano state superate, elaborate, autocriticate, accantonate.
passerella di politici
Quando ero cronista al Messaggero ho seguito la comunità di San Patrignano dalla sua nascita, ho seguito il primo “processo delle catene” fino agli anni ’90 quando ormai San Patrignano era capace di ospitare quasi 3000 ragazzi dai 50 che avevo conosciuto io nel mio primo servizio nei primi anni 80, e quando – purtroppo – era diventata la passerella di politici in cerca di facile ribalta televisiva.
Tornando alla perifrasi iniziale, prendendo a prestito il titolo del bel romanzo di Cormac McCarthy “Non è un paese per vecchi”, vorrei dire che chi ha meno di 50 anni non sa e non conosce cosa hanno significato gli anni 70/80 dove terrorismo e droga hanno contaminato i nostri anni, che sarebbero dovuti essere “i migliori anni della nostra vita”. Non sapendo cosa è stata l’eroina e soprattutto cosa è stato da un punto di vista sociale l’impatto di quella sostanza per i ragazzi e per le loro famiglie, difficilmente si può capire cosa ha rappresentato San Patrignano.
Da una parte c’era uno Stato di Diritto che – giustamente – pretendeva il rispetto delle proprie leggi (ma che non si occupava minimamente dell’assistenza e del recupero dei tossici) e dall’altra un pugno di volontari, perlopiù preti, che si dannavano la vita cercando di aiutare chi ne aveva bisogno. Non essendoci regole di terapia scritte, i rimedi erano i più disparati. Per qualcuno serviva il prete alla don Mario Picchi che lavorava sulla “colpa”, per qualcuno il prete alla don Andrea Gallo con il suo anarchismo ecumenico, per altri il calore del cappellano milanese don Gino Rigoldi, per altri il carisma di don Pierino Gelmini, per altri il “papà dei tossici” Vincenzo Muccioli che ne ha legato qualcuno in catene, non ha mai lesinato sugli schiaffoni ma – è incontestabile – ne ha salvati a migliaia, forse a decine di migliaia. Ma solo chi ha vissuto quel dramma, chi ha visto figli e amici spegnersi lentamente può guardare questa serie con occhi più oggettivi perché il fine a volte può giustificare i mezzi.
medium e pranoterapeuta
La grande discussione intorno a Muccioli è sempre stata questa: un uomo che si è fatto da solo, senza studi adeguati, anzi con un passato oscuro di medium e pranoterapeuta e forse, chissà, anche di piccolo truffatore, si è inventato una comunità aperta a tutti gli scarti, perché sentiva il dovere “di fare del bene”. E ha fatto anche degli errori come succede di solito a “chi fa”.
La serie di Netflix scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli per la regia di Cosima Spender racconta – bene e con ottimo ritmo da inchiesta televisiva che non concede nulla alla fiction – la storia di Muccioli, i primi passi, la diffidenza dei riminesi, l’aiuto finanziario di Gianmarco e Letizia Moratti, gli attacchi della magistratura, il “cerchio magico” dei suoi più stretti collaboratori.
Il primo processo del 1983 apre il dibattito sullo “stato di necessità”: si può trattenere una persona con la forza e contro la sua volontà per il suo bene? “Se non li legavo con le catene, quelli scappano e tornano a bucarsi. E siccome loro mi hanno chiesto disperatamente di aiutarli, io lo farò con le buone o se serve con le cattive”, diceva. Condanna in primo grado, assoluzione in Appello e Cassazione: il “metodo Muccioli” era sdoganato e SanPa divenne popolarissima e in pochi anni raggiunse dimensioni esagerate. L’opinione pubblica era al 92 per cento con Muccioli e presto i politici dalla sinistra alla destra iniziarono a blandirlo, a portarlo come esempio, a finanziarlo, a mandargli figli e nipoti. L’incapacità di gestire le dimensioni e la pressione ha fatto il resto, delegando spesso a persone sbagliate incarichi troppo importanti.
angeli e aguzzini
Con un ampio mix di testimonianze la serie di Netflix racconta l’ascesa e poi la caduta di Muccioli. C’è un’altra bruttissima storia che si consuma lì dentro qualche anno dopo: un ragazzo viene ucciso a pugni e calci dai suoi “angeli custodi” e poi scaricato lontano da San Patrignano. Muccioli sapeva tutto ma non ha denunciato i suoi aguzzini. Lo ha fatto per difendere l’integrità della comunità o per nascondere gli abusi tollerati e forse incoraggiati che poi sono stati denunciati da numerosi ragazzi “pentiti” che, uno ad uno, lo hanno abbandonato ed hanno scelto di liberarsi anche da quella forma di dipendenza?
Forse, alla base di tutto l’inizio della fine, c’è un problema di comunicazione: non si ammette l’errore ma ci si nasconde dietro una personalità sempre più megalomane. Muccioli è stato vittima del proprio delirio di onnipotenza e anche la morte per Aids, causa tenuta nascosta come tante altre cose che non “dovevano” essere rese pubbliche, è stata la teatrale conclusione di una vita spesa al fianco dei tossici.
Un uomo controverso, una figura complessa nella propria semplicità contadina, che ha sbagliato parecchio ma che ha salvato letteralmente migliaia di persone.
Tutto questo riguarda Muccioli, come detto, ma riguarda anche tutti coloro che sono stati e sono tutt’ora in comunità. Su questo aspetto manca qualcosa di importante alla serie che è un prodotto di buon giornalismo, ma è monco. Altrimenti si fanno due errori: il primo è focalizzarsi solo sulla figura di Muccioli, televisivamente ben spendibile, ma assente dalla vita che va avanti da 25 anni senza di lui; il secondo è quello di non dare dignità alla fatica e agli sforzi di tutti quelli che in questi 25 anni hanno lottato per il proprio futuro. E non è poco.
La serie mi é piaciuta, ha descritto uno spaccato della società italiana degli anni 70/90, anni che non ho vissuto pienamente, visto che sono nata nell’87. Che idea mi sono fatta: credo nelle buone intenzioni di Muccioli, capisco che una comunità di 100 persone non sia minimamente equiparabile a un’organizzazione di 1600/2000, in più in un contesto così difficile. La situazione é sfuggita di mano, facile commettere errori. Muccioli non ha mai ammesso i suoi errori, la sua megalomania e il senso di onnipotenza lo ha fatto precipitare in un abisso dal quale lui stesso non é più riuscito ad emergere. Il fine giustifica sempre tutti i mezzi? No, i mezzi qualche limite devono averlo se non vogliamo vivere in uno stato di polizia dove ai controllori tutto é concesso, e non parliamo di catene o qualche schiaffone, ma cose ben peggiori. Il triste epilogo dell’imprenditore tuona come una resa dei conti voluta dal fato, in compenso vivrà sempre la riconoscenza di giovani vite prelevate da morte certa.