di SOFIA GADICI

Si dice che in guerra la prima vittima sia la verità. Per questo, spesso, i primi a morire in un conflitto sono i giornalisti. È accaduto anche in Afghanistan. 

Malala Maiwand è stata uccisa lo scorso dicembre, quando è iniziata l’escalation di violenza talebana nel Paese. Aveva 26 anni e lavorava per l’emittente Enikass, nella provincia di Nangarhar. Poi, come racconta Francesca Mannocchi su La Repubblica il 18 agosto, è stato il turno di tre sue colleghe. Il giornalista Jon Allsop sulla Columbia Journalism Review ha ricordato che una settimana prima della conquista di Kabul sono stati uccisi Dawa Khan Menapal, incaricato delle relazioni con la stampa per il governo afgano, e Toofan Omar, gestore della stazione radio Paktia Ghag.

in un sotterraneo

Chi non è morto ora vive nel terrore. Dopo la presa della capitale da parte degli estremisti islamici, intervistato da Pierluigi Bussi di Repubblica, il giornalista Alireza Ahmadi ha raccontato di vivere nascosto in un sotterraneo: “La mia redazione ha chiuso, presto finirò in un carcere. Non credo alle promesse dei talebani, ci vogliono morti, per loro siamo degli infedeli, chiedo aiuto all’Italia”. Su Twitter Mustafa Kazemi, di Radio Free Europe/Radio Liberty, emittente afgana finanziata dagli Stati Uniti, ha scritto: “Molti di noi hanno iniziato a contare le loro ultime ore di vita a Kabul. Nessuno sa cosa succederà. Pregate per noi”. Sempre su Twitter Shabnam Dawran, presentatrice della tv di Stato Rta, ha denunciato che talebani le hanno impedito di raggiungere la sua redazione: “Nonostante indossassi l’hijab e avessi il mio pass identificativo, i talebani mi hanno detto che il regime è cambiato e che dovevo andare a casa”. La notte del 21 agosto la giornalista Clarissa Ward della Cnn ha lasciato il Paese. Nei giorni precedenti aveva raccontato la situazione in Afghanistan girando per le strade di Kabul. Capelli coperti e molto coraggio. La decisione di partire è arrivata dopo un’aggressione subita mentre girava un servizio. Alcuni talebani le hanno chiesto di coprirsi il volto e il suo operatore è stato colpito con il calcio di un fucile.

Davanti alle telecamere, però, i talebani si mostrano clementi. Un loro portavoce, nel corso di un colloquio con i rappresentanti di Reporters Sans Frontieres, ha promesso che i giornalisti non saranno perseguitati: “Rispetteremo la libertà di stampa, perché i media saranno utili alla società e potranno aiutare a correggere gli errori dei leader”. Riguardo alle giornaliste ha detto: “A loro è permesso di continuare a lavorare a condizione che indossino un hijab o comunque che coprano i capelli”. Ma ha aggiunto che verrà stabilito un “quadro legale” in cui le donne potranno agire e che, nel frattempo, dovrebbero “restare a casa, senza stress e senza paura”. 

chiusi 51 organi di stampa

Rsf ricorda che durante il primo periodo del governo talebano in Afghanistan (1996 – 2001) tutti i media furono banditi. Secondo il Committee to Protect Journalists, osservatorio globale dei media, dallo scorso maggio 51 organi di stampa afgani sono stati costretti a chiudere: 5 canali tv, 44 stazioni radio e due agenzie.

Il 16 agosto sulla tv Rta sono stati trasmessi alcuni notiziari gestiti dai talebani. Lo stesso giorno su Tolo News, prima rete televisiva del Paese, la giornalista Beheshta Arghand ha intervistato uno dei rappresentanti talebani. Un evento “storico” se si tiene conto che la legge islamica preclude alle donne attività di questo tipo. Sempre per Tolo News, dopo due giorni di assenza, sono tornate a collegarsi in diretta dalle strade della capitale le giornaliste Hasiba Atakpal e Zahra Rahimi. Il direttore della società televisiva ha raccontato che dopo la conquista di Kabul i talebani sono entrati nella sede dell’emittente, ma non gli hanno chiesto di interrompere le trasmissioni. Lui comunque si aspetta molto presto delle restrizioni. Per ora sta cercando proteggere i suoi giornalisti. Ha chiesto alle donne che lavorano con lui di “rimanere a casa per un paio di giorni fino a quando le cose non saranno più chiare”. Ma loro “vogliono lavorare e sono tornate”.

le prime vittime 

La Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) ha invitato i governi e la comunità internazionale a fornire supporto e protezione immediati agli operatori dei media afgani e alle loro famiglie minacciate.

In una nota congiunta le commissioni Pari Opportunità della Fnsi, dell’Ordine dei giornalisti, dell’Usigrai e il gruppo GiULiA si sono unite all’appello: “Noi giornaliste italiane siamo molto preoccupate, per contatti diretti e indiretti, per la sorte delle colleghe afgane. La libera informazione messa oggi al bando dalla conquista talebana, le difficoltà e i pericoli per i giornalisti che hanno manifestato in questi anni il loro libero pensiero, le intimidazioni e le minacce, vedono le donne professioniste dell’informazione come prime vittime, costrette alla fuga, a rischio – come denuncia l’IFJ – della propria vita. […] Non ci illudiamo purtroppo di fronte alle prime mosse propagandistiche, che concedono a giornaliste la conduzione televisiva: è per questo che chiediamo a tutti i nostri organismi di aderire all’appello dell’IFJ per la solidarietà internazionale nei confronti della libera stampa afghana, e rivolgiamo la stessa richiesta a tutte le giornaliste e i giornalisti italiani che hanno incarichi e ruoli pubblici, in Parlamento e nel Governo italiano, così come al Presidente del Parlamento europeo David Sassoli e al Commissario europeo Paolo Gentiloni”.

(nella foto Hasiba Atakpal)

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