di ALBERTO FERRIGOLO
“Il punto è chiedersi se l’Ordine dei giornalisti aveva un senso anche prima. Ribalterei la domanda: che ragioni diamo all’esistenza dell’Ordine dei giornalisti? La mia impressione è che le ragioni tradizionali e convenzionali che diamo alla sua esistenza non abbiano un’applicazione pratica reale”. Luca Sofri è il direttore de Il Post, una delle esperienze online più avanzate e ricche di contenuti, nata alla metà del 2010. Sito o giornale, sin dall’inizio si basa su un modello d’impresa che vede presenti gli inserzionisti ma che, a partire dal 2019, ha associato anche un abbonamento per la fruizione di contenuti speciali e dove quest’ultimo pesa per oltre il 40% dei ricavi. Ma la consultazione generale degli articoli continua a rimanere gratuita.
Perché pensi che l’Ordine non svolga le sue funzioni?
“Ritengo che l’Ordine non provveda né a offrire garanzie particolarmente accurate, rispetto al fatto che le persone iscritte abbiano particolari competenze giornalistiche o maggiori competenze di quelle che ci si può procurare in molti modi senza passare necessariamente dall’Ordine, né – di fatto – applichi alcuna garanzia di vigilanza sulla qualità del lavoro giornalistico. Lo dico senza voler muovere accuse o critiche, ma solamente come una constatazione. Quindi, nella sostanza, non vedo in generale una grande necessità dell’esistenza dell’Ordine, perché nei fatti quel che vedo è che ci sono moltissime persone, giovani o meno giovani, che sono assolutamente qualificate a fare del lavoro giornalistico né più e né meno, anzi talvolta forse persino di più, indipendentemente dalla loro appartenenza all’Ordine dei giornalisti”.
Di quali giornalisti c’è bisogno, allora?
“Come in tutte le professioni c’è bisogno di persone che facciano il loro lavoro con coscienza e consapevolezza delle responsabilità che questo comporta. È un criterio, questo, che non si applica solo ai giornalisti, ma si può applicare a un sacco di altre professioni. Naturalmente ci sono professioni in cui le deviazioni da queste qualità e attenzioni hanno conseguenze potenzialmente maggiori e anche più pericolose, se per caso per esempio fai il magistrato, o hanno conseguenze totalmente minori, se fai l’ortolano. Tuttavia, anche in questo caso, se l’ortolano non fa attenzione a quel che vende, la qualità della sua disattenzione e inadeguatezza può diventare pericolosa. Però, in sostanza, penso che ci sia da una parte una questione di qualità, attenzione e senso delle responsabilità e di consapevolezza individuale e dall’altra la necessità di un lavoro culturale di formazione che riguarda un po’ tutto il Paese. E che riguarda anche la formazione degli eventuali giornalisti, che secondo me è molto demandata alle scuole di giornalismo, anche se non le conosco abbastanza, ma moltissimo direttamente alle redazioni”.
E che idea ti sei fatto?
“Ho l’impressione che in moltissime redazioni non si faccia un grande lavoro, non dico di qualità di esecuzione del lavoro giornalistico, ma anche di perpetuazione e di alimentazione di una cultura dell’accuratezza delle persone che vogliono fare i giornalisti, che lì approdano e lì cominciano a lavorare”.
Quindi anche nei confronti del lettore?
“Si, certo, questo è sicuramente il tema principale, ma ora rispondevo per quel che riguarda la professione giornalistica e la creazione di una maggiore attenzione all’etica giornalistica. Certo, poi c’è la questione della qualità del prodotto, della qualità dell’informazione”.
Come si definisce o si dovrebbe definire meglio la specificità del professionista, del giornalista? Perché poi c’è anche questa suddivisione in professionisti e pubblicisti: ha ancora senso, anche alla luce dei nuovi rapporti di produzione basati sullo sviluppo delle tecnologie, dell’uso massiccio del social e delle nuove figure professionali che ne sono nate?
“Come dicevo, questa distinzione non ha nessun senso, non solo tra professionisti e pubblicisti, ma anche con altre figure che fanno dei lavori giornalistici. Come sai, capita con frequenza che sui giornali e su testate di tipo diverso scrivano e pubblichino persone che hanno specifiche competenze e una dignitosa qualità di scrittura per poter scrivere sui giornali. Se la vogliamo dire tutta, io sono diffidente di questo specifico giornalistico. Naturalmente stiamo facendo delle gran generalizzazioni, perché come sappiamo il lavoro giornalistico sono tantissimi lavori diversi, tantissimi contesti diversi. E quel che fa uno che lavora a un quotidiano di Lecce è diverso da quello di chi lavora a un magazine milanese o di chi lavora alla Settimana Enigmistica, eccetera. Veramente lì le situazioni sono straordinariamente diverse. Però io penso, appunto, che la qualità del lavoro giornalistico dipenda da una formazione e consapevolezza generale sull’importanza che una buona informazione ha nelle nostre società, più che da tecniche professionali”.
Prima hai fatto un riferimento all’etica, ma qual è l’etica del giornalismo?
“Sintetizzando, è avere assolutamente presente che il giornalismo è qualunque cosa che concorra al fatto che le comunità siano meglio informate e quindi funzionino meglio. Le comunità possono essere delle comunità ridotte, comunità locali, o popolazioni di Paesi interi. Tutto ciò che concorre al fatto che la nostra informazione e consapevolezza della realtà sia migliore o maggiore, più aderente possibile alla realtà, senza ora entrare nei terreni filosofici di cosa sia il vero e il falso e cosa sia la realtà, io lo considero giornalismo e buon lavoro giornalistico, a prescindere da chi lo faccia”.
Se non sei favorevole all’esistenza dell’Ordine dei giornalisti, sei allora un abolizionista? Cosa proporresti in alternativa? Come dovrebbe essere strutturata la professione giornalistica?
“Io non penso che abbia bisogno d’esser strutturata. Credo che debba rispondere alle leggi che esistono e di cui c’è bisogno, come per qualunque attività professionale, ma non che sia strutturata corporativamente. Detto questo, la mia visuale è una visuale limitata e parziale, come dicevo: il lavoro giornalistico avviene in mille contesti diversi, e quindi non mi sento di dirmi abolizionista, e di conseguenza non ho idee particolari sulle sue necessità di riforma. La mia unica impressione è che non ce ne sia bisogno”.
Però l’Ordine è a tutela delle garanzie del lettore, perché l’Ordine sanziona o dovrebbe sanzionare eventuali comportamenti scorretti del professionista.
“Sì, ma non lo fa. Sappiamo tutti benissimo che non lo fa, non lo fa mai. Sappiamo anche che sarebbe molto difficile farlo. Il terreno dell’informazione accurata, di che cosa sia vero e cosa no, eccetera, è un terreno scivolosissimo e difficile da regolare e condividere, soprattutto in termini di grandi partigianerie e polarizzazioni come oggi. Ma faccio l’esempio più palese: esiste in diverse Carte condivise dell’etica giornalistica, l’impostazione e la richiesta che ogni contenuto promozionale e pubblicitario sui giornali sia segnalato al lettore. Bene, questa richiesta scritta e condivisa da tutti quanti è quotidianamente disattesa su tutti i giornali e sui maggiori quotidiani. È solo un esempio, ma non mi sembra che esista alcuna vigilanza rispetto alla correttezza nei confronti del lettore”.
La crisi dell’editoria ha comportato l’espulsione dal mondo produttivo di fette consistenti di giornalisti. Alcuni hanno scelto altre vie, che hanno più a che fare con la comunicazione, politica o aziendale, pubblicitaria. Vanno considerati sempre come giornalisti, dovrebbero dichiararsi in quanto tali o si dovrebbero astenere dall’esercizio della professione?
“Purtroppo anche questa è una domanda che parte di nuovo da un assunto che non condivido. La mia risposta, che può suonare spiccia, è che non è un tema che m’interessa”.
Qual è la missione del giornalismo? È la ricerca della verità?
“È fare in modo che le comunità in cui viviamo e in cui operiamo funzionino meglio, la convivenza sia migliore e, in ultima analisi, anche le democrazie funzionino meglio o le persone vadano a votare essendo bene informate su ciò su cui votano e sulle conseguenze del loro voto. La missione è un’informazione migliore possibile per le persone all’interno delle comunità”.
(nella foto, Luca Sofri)