La storia di Greta Beccaglia, giovane cronista molestata davanti allo stadio di Empoli dai tifosi a più riprese, ha suscitato una grande eco. Dentro questa eco, sono interessanti certi giudizi di giornaliste donne (e famose). Perché loro sì, possono permettersi di andare di traverso rispetto al giudizio generale di giusta riprovazione.

La prima è Concita De Gregorio, che sulla sua rubrica “Invece Concita” (la Repubblica, 1° dicembre) parte dalla bellezza, dicendo, ad esempio, che quando questa “sia esibita non è mai un invito a toccare”. Per essere toccata (la titolare della bellezza) deve essere lieta e “chi tocca senza il consenso della toccata esercita violenza. Chi ride o sminuisce la violenza la legittima”. Detto ciò, Concita si domanda se nel giornalismo sportivo la ricorrenza di conduttrici o croniste con fisico da pin up (possibili talenti, peraltro) “sia un criterio di selezione adottato da chi ha il potere di scegliere -editori, direttori, capiredattori- con la speranza di sollevare, si dice, l’audience. Perché se così fosse -ma è solo un dubbio- sarebbe questo, credo, il punto”.

mandate allo sbaraglio

Sul Domani (2 dicembre) Selvaggia Lucarelli suggerisce lo stesso tema: “E’ il caso di interrogarsi sulla realtà delle tv in cui la donna è presente in quantità massiccia in programmi sportivi. Bisognerebbe smetterla di utilizzare le donne in modalità specchietti per le allodole nel calcio. Bisognerebbe smetterla di mandarle allo sbaraglio, di cercare ragazze a cui affidare il ruolo della gaffeur del giorno o quella della giornalista esperta se non è una giornalista esperta ma sufficientemente bella da sfamare il tifoso medio o lo stereotipo del tifoso medio. Perché sì, una mano sul sedere è una molestia, una donna inesperta o decorativa piazzata scientificamente nei programmi sportivi è parte di una cultura molesta che andrebbe punita con un daspo definitivo e irreversibile”.

esperienza adeguata

Lucarelli  sottolinea inoltre che Greta Beccaglia, definita giornalista da tutti i giornalisti e testate, e anche da lei stessa, in realtà non è giornalista, ma ha appena terminato i due anni per presentare domanda per il tesserino da pubblicista. Aggiunge che non ritiene il tesserino garanzia di talento e professionalità, “ma di fatto non stiamo parlando di una giornalista iscritta all’Ordine e neppure di una professionista che lavora in questo campo da tempo”. Dunque: “Perché c’era Greta Beccaglia fuori da quello stadio dopo un derby e non un/una giornalista con esperienza adeguata alla situazione e al ruolo?”.

Infine, la più “firma” delle tre firme, Natalia Aspesi, che affronta -sempre su la Repubblica, 1° dicembre- la vicenda da un‘altra parte, quella della gerarchia delle notizie: “Io sto ovviamente con la collega, ma non col clamore che ha suscitato, non meno indignato (ma mi auguro più brevemente) di quando un reporter viene ucciso sul suo lavoro, come purtroppo capita. Mi dispiace, io, e spero non solo io, voglio fare la differenza tra offesa e crimine e penso che una mano sul sedere esiga delle scuse ma non meriti l’ergastolo, anche perché penso che nel tempo del fattaccio tre persone morivano sul lavoro. Tutti ad occuparsi di quel sedere, nessuno di quei tre morti”. E Aspesi ringrazia il suo giornale per aver messo il giorno prima, 30 novembre, in prima pagina i mille morti per lavoro e aver fatto provare vergogna a chi legge.

Professione Reporter

(nella foto, Natalia Aspesi, con Giorgio Bocca)

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